È IMPORTANTE INCLUDERE O AVERE LA DIVERSITÀ IN AZIENDA?

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Sviluppare la Diversity and Inclusion nel 2020

Lo sviluppo delle tematiche di Diversity & Inclusion nelle aziende è ormai un argomento frequentato da decenni. Oggi è difficile trovare un'organizzazione che non parli di diversità e inclusione e tanti sono i contesti in cui questa tematica viene trattata come una priorità aziendale, un obiettivo a cui tendere, un asset culturale distintivo che crea valore e un ulteriore punto di leva per lo sviluppo aziendale a tutto tondo. L’impegno nel cogliere le diversità come elemento di valore e gli sforzi di inclusione aziendale, con il tempo, accrescono anche il senso di appartenenza all'organizzazione. Una cultura incentrata sul senso d’appartenenza non solo è un valore per sé, ma è anche un motore per il coinvolgimento dei dipendenti, un modo per aumentare la produttività, migliorare la reputazione dell’azienda e una leva per attrarre i migliori talenti.

Ma cosa significa di preciso Diversity & Inclusion? Il presupposto di base si fonda su un’ipotesi puntuale: la diversità esiste e occorre includerla in azienda. Ovviamente per poter esistere deve esistere anche la ‘non diversità’ cioè un qualcosa che potremmo chiamare ‘normalità’. Ragionando così clusterizziamo quindi le persone in categorie quali ‘i normali’ e ‘i diversi’. Ma cos’è la normalità? L’uomo bianco, intorno ai 40 anni, cioè quella figura che vediamo rappresentata nel libro di scienze a scuola quando si parla dell’homo sapiens

In realtà questo modo di ragionare è totalmente disfunzionale poiché se ci fermassimo anche solo un attimo a riflettere su questo tema, ci renderemmo conto che sono poche le organizzazioni nelle quali esiste una ‘normalità’ intesa come omogeneità totale della popolazione aziendale. Le organizzazioni annoverano una varietà di persone e di profili, e pur senza considerare culture, generi, religioni o etnie diverse da includere, basterebbe soffermarsi su un fatto del tutto evidente: le persone sono diverse per il semplice fatto che ‘abitano’ fasi di vita diverse. 

Osservando semplicemente la varietà generazionale nelle organizzazioni di oggi scopriamo che per la prima volta nella storia abbiamo 4-5 generazioni che lavorano l’una a fianco all’altra, e già questa grande varietà porta con sé un’enorme sfida su come far coesistere e rendere produttiva la collaborazione tra questi diversi gruppi.

Immaginatevi, per esempio, una scena pre-Covid in cui si frequentava ancora l’ufficio. Una ragazza della generazione Z comincia a fare la sua first entry nel mondo professionale come stagista «estiva». Nativa digitale, classe 2000 ha 18 anni, un’anima più internazionale dei propri genitori. Parla con una certa fluidità anche l’inglese e indipendentemente dalla sua giovane età ha già visitato molti paesi diversi, godendo dei prezzi bassi della mobilità contemporanea e dell’inesistente burocrazia che caratterizza il muoversi all’interno dell’UE. Ha un lessico diverso dalle generazioni precedenti, che include parole come cringe4 e spoilerare5 ed esclude invece completamente alcune parole che prima si usavano con una certa frequenza (progresso, borghesia). Tra i suoi amici ha persone unisex che si fanno chiamare «loro» (non lui o lei, categorie oramai molto oldfashioned). Ovviamente segue Greta Thunberg. Vive infatti un’emozione di profonda preoccupazione, chiamata in gergo «ansia ambientale». Quest’ultima si accende anche al posto di lavoro quando vede i colleghi delle generazioni precedenti stampare grandi quantità di documenti cartacei e bere allegramente dai bicchieri di plastica durante le pause. «Ma possibile che ancora nel mondo c’è gente che si comporta così?», pensa fra sé e sé.

A dargli una mano il ragazzo della Generazione Y, nato nel 1993, al suo terzo giro di tirocinio. È fiducioso che questa volta andrà bene. Con la stagista estiva condivide la passione per i social ma non tanto altro. All’HR Business Partner ed al suo capo dice: «Vorrei ricevere frequenti feedback su come performo. Posso, per favore, avere un mentor? Possiamo sederci e parlare della mia crescita? Come posso sviluppare e imparare di più?». «In che senso?» pensa terrorizzata la sua capa, una signora della generazione X. «Vuoi che ci sediamo a riflettere con tutto quello che abbiamo da fare? A che scopo? Non lo capisci da solo cosa devi fare dopo tutto questo tempo (3 mesi) che stai da noi?». La signora, nata nel ‘77, è in affanno emotivo. Sta facendo carriera e ha fretta. La carriera si fa adesso. Dopo sarà troppo tardi. E poi ha poco tempo da perdere in generale. Ha le ore contate. Tutti i giorni. Entro poche ore rientreranno da scuola i figli e ci sarà da gestire loro e una casa fuori controllo. E anche la cena! 

I personaggi di questa generazione si riconoscono tra loro con una semplice occhiata. Non appena si incrociano la prima cosa che si dicono è: «quanto sono stanca», oppure «quante cose ho da fare!»

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Incurante, passa nel corridoio un Baby Boomer, nato qualche anno dopo la guerra. Diciamolo, nel suo profondo sta aspettando il pensionamento, anche se mancano ancora un po’ di anni e certamente non è questo l’argomento che ama trattare con i più giovani. È troppo occupato a dimostrare la sua totale dedizione al lavoro. L’orgoglio personale nasce dall’impegno, no? Bisogna dedicarsi all’azienda e agli altri, alla società. Tutto questo individualismo, crescita personale e career development del ragazzo Y e della Signora X non lo capisce. Sempre a pensare a se stessi… 

Il Baby Boomer si dirige verso la stanza del collega molto più anziano di lui, uno che della vita ha visto di tutto – dice lui. Appartiene a quella categoria di individui super resilienti della generazione della ricostruzione, nati prima del ‘45, che di pensione non ne vogliono proprio sapere. Per loro contano ruoli chiari, gerarchia, risultati tangibili e vogliono lavorare fino alla morte.  

Seppure in prevalenza italiani, bianchi e cattolici, questi personaggi appartengono a 5 mondi diversi, con valori, ideali e fasi di vita da incanalare in un fare comune che, se ben assemblati, dovrebbero determinare i risultati all’azienda. Basta questa semplice osservazione  per rendere del tutto evidente come il tema del diverso diventi concettualmente complesso, sfuggente e difficile da afferrare.

In fondo, la semplice verità è che «io sono comunque diverso all’altro, indipendentemente da come sono». 

Il valore che possiamo dare alla diversità nasce dal riconoscere il possibile contributo utile all’organizzazione di ciascuno. Cosa può e cosa sa fare ciascuno? Che competenze ha? In cosa potrebbe eccellere? Che momento di vita sta vivendo?

Includere e il senso di appartenenza in epoca Covid-19

L’esempio sulle diverse generazioni raccontato qui sopra, dove la stagista estiva si fa le foto nei corridoi dell’azienda, è ovviamente obsoleto nell’epoca del Covid-19. E questo apre un nuovo capitolo, per quanto riguarda il tema dell’inclusione. Riscriviamo quindi la storia per essere più aderenti ai tempi che stiamo vivendo.

I due personaggi più giovani non faticano ad adattarsi alla modalità di lavoro digitale da un punto di vista tecnico. Per loro è naturale, con il digitale ci sono nati. Socializzano e si frequentano online con stessa agilità con cui si vedono di persona, anzi, forse a volte in digitale per loro è più facile. Ma mancando i punti di riferimento di un contesto organizzativo tangibile, popolato da persone che possono fungere da riferimento, così come l’assenza di un luogo e di uno spazio fisico, con i suoi rituali ed i suoi ‘segnali culturali’, rende difficile sia tenere ‘vicine’ le persone – soprattutto quelle entrate nell’ambiente da poco – che costruire un senso di appartenenza tra queste e l’organizzazione nel suo complesso. 

Dal nostro osservatorio di Business Coach possiamo testimoniare come sia particolarmente difficile e complesso l’inserimento di nuove giovani risorse all’interno delle organizzazioni in questo momento storico. Quando si comincia a lavorare in un’organizzazione non si apprendono soltanto i task da svolgere, ma anche i modi, le prassi, i costumi che si assimilano quasi per osmosi, si assorbono per frequentazione e allineamento sociale alla cultura esistente. Le relazioni si costruiscono più facilmente con le persone fisicamente allocate nelle prossimità, si chiedono consigli, si scambiamo le idee, si imparano cose ‘vedendo’ ed interloquendo con le persone più vicine. Tutto ciò diventa estremamente più complicato quando lavoriamo da casa in modo permanente o semi-permanente. Tutto ciò richiede una determinata intenzionalità, una programmazione, una appropriata allocazione del tempo nella propria agenda e di quella degli altri.

Se prima la signora della generazione X era stressata, adesso è arrivata all’orlo dell’esaurimento. Da sempre si parla del bisogno di dare il part-time alle madri lavoratrici, e si discute sull’introduzione di maggiore flessibilità degli orari. Covid-19 e remote working hanno cambiato le carte in tavola e le abitudini in meglio, ma non per tutti. Certo, adesso si lavora da casa, ma mentre in call con l’ufficio e i clienti la Signora X deve gestire i figli che studiano in DAD, costretti alla quarantena a causa di vari contagi riportati nella loro classe. La signora già affaticata è sempre più stanca, sempre più esausta, ma questa volta le chiacchiere da sfogo davanti alla macchina del caffè non esistono. I colleghi sono lontani. Ognuno è quindi costretto a tenersi le proprie difficoltà. Alla fine la Signora X lascia il lavoro, come hanno fatto migliaia di donne in Italia durante questo anno di pandemia. 

Intanto, Mr Baby Boomer sta ancora lì a chiedersi come gestire la relazione con i clienti e con il proprio team in queste condizioni, sperando che presto si torni alla ‘normalità’. «Come si fa ad usare una video call per creare contatto empatico e una relazione sana con i propri interlocutori? Come si fa a fare una video call in generale?» continua a chiedersi.

Il veterano che non ne voleva sapere di andare in pensione è finalmente arrivato alla conclusione che adesso è proprio il momento per ritirarsi. Addirittura la compagnia della moglie è meglio che mettersi a imparare tutti questi nuovi modi di comunicare.

Insomma anche in quest’epoca siamo diversi, pur essendo tutti colpiti dalle conseguenze dello stesso virus. Ma potrebbe essere proprio questo l’elemento che ci accomuna? Sicuramente è un momento in cui ci dobbiamo attivare tutti. Infatti il confine tra includere e farsi includere è sottile. Perciò, anche adesso, serve una leadership efficace e una cultura aziendale che coltivi il senso di appartenenza, responsabilizzando le persone a diventare protagoniste del proprio fare, del proprio destino, della propria partecipazione. La Diversity & Inclusion rimane quindi incredibilmente attuale e addirittura si arricchisce di nuove dimensioni. Quello che non cambia però è che a fare la differenza sono i comportamenti che le persone agiscono nella quotidianità. La domanda a cui dare risposta era e resta: «cos’è nel mio potere per agevolare l’inclusione degli altri e per essere inclusa a mia volta, creando così maggiore senso di appartenenza per tutti?»

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