Si scrive post-merger (& acquisition) integration e si legge invasione e conquista

Questa, almeno, è la frequente lettura che viene fatta dai componenti delle organizzazioni che risultano acquisite o che, al di là delle dichiarazioni di facciata, perdono la loro autonomia decisionale e strategica a favore di un altro soggetto che ne assume la responsabilità in termini di indirizzo e di nomina dei vertici.

La storia, come si usa dire, la scrivono i vincitori, ma questo accade anche per i processi a valle delle acquisizioni. 

Pur avendo assistito o partecipato personalmente a decine di operazioni del genere ed essermi spesso dedicato allo studio del fenomeno, ho rarissimamente incontrato studi, ricerche o articoli che mettessero a fuoco le dinamiche delle organizzazioni “acquisite” e come queste dinamiche – sociali, individuali, emotive, cognitive, organizzative, etc. – possano determinare il (mancato) successo delle operazioni. 

Le uniche tracce evidenti di queste dinamiche emergono quando tali operazioni mettono a rischio un significativo numero di posti di lavoro e, dunque, determinano la reazione spesso forte e “rumorosa” delle organizzazioni sindacali oltre che dei lavoratori stessi.

Ma a parte questo, poco altro. 

Nella sala riunioni dedicata ai Board Meeting di una grande multinazionale italiana ha luogo il primo incontro “virtuale” tra il management dell’azienda e quello di una azienda appena acquisita di dimensioni molto più ridotte, con sede in un paese mitteleuropeo.

Le formazioni sono speculari: il CEO e suoi diretti riporti da una parte e dall’altra. Dopo i convenevoli d’obbligo, e alcuni improbabili scambi di battute, ecco che prende il via la riunione. Lo scopo – questo il brief ricevuto dal management dell’azienda acquirente – è lanciare un messaggio rassicurante ai “nuovi colleghi”, anche in termini di valorizzazione delle loro caratteristiche professionali e delle loro ambizioni di crescita e di carriera.

Lo svolgimento del compito viene subito aggredito dal CEO della multinazionale italiana. 

“Siamo felici di essere riuniti qui oggi, finalmente. Quello che ci ha visti protagonisti, in questi ultimi mesi, è stato un processo lungo, intenso e non privo di momenti critici. Ma quello che conta è che siamo riusciti a superare tutti gli ostacoli che si sono posti, che alla fine abbiamo trovato una vantaggiosa intesa su tutto e per tutti. Ci ritroviamo qui, oggi, finalmente seduti insieme per cominciare a dare vita ad una nuova avventura il cui esito, sono certo, sarà molto superiore alla somma delle parti. Da oggi siamo tutti insieme sulla stessa barca e siamo chiamati a remare nella stessa direzione”.

Se le espressioni facciali avessero una voce, dall’altra parte del video, dove siede il management dell’azienda acquisita si potrebbe udire:

“Secondo me il prezzo della transazione non è comunque fair: in qualche modo questo prima o poi verrà fuori” oppure “Io stavo benissimo. Avevamo la nostra piccola realtà, funzionava bene…certo, c’erano degli screzi tra noi ma nulla di più. Come faremo ad andare d’accordo con questi, che nemmeno parlano la nostra lingua?”.

“Belle parole, ma io che fine faccio? mi hanno promesso un po’ di soldi ma cosa mi succederà? Devo cominciare a cercarmi un altro lavoro?”, pensa un altro membro della riunione.

“Una cosa è sicura: io con questi non ci lavoro neanche morto. Mi porto a casa i miei bei soldi e appena posso me la svigno, altrochè stessa barca, ma quando mai?”. E per concludere: “Lì non ce n’è uno che valga la metà di me. Se me ne vado io qui va tutto a rotoli. Bisogna che glielo chiarisca bene”.

Nella stragrande maggioranza dei casi le attività di post merger integration falliscono, ovvero, a valle dell’operazione, determinano una generazione di valore molto inferiore alle aspettative. 

Gli aspetti che determinano questi flop – a volte plateali – sono quasi tutti riconducibili a dimensioni comportamentali e culturali, sia di carattere individuale che di carattere organizzativo/sociale. 

A compromettere l’economicità dell’operazione è spesso un fattore puntuale: l’insufficiente investimento specifico messo in campo su temi comportamentali e culturali.

Cosa si intende con investimento specifico? Si intende un’azione intenzionale che comporta tempo ed energie, finalizzata alla reciproca comprensione delle modalità comportamentali e culturali delle due organizzazioni.

Dunque, non riguarda l’integrazione dei sistemi, l’allineamento dei processi o l’ottimizzazione dei costi. Si tratta invece di uno sforzo mirato a costruire un percorso dedicato al reciproco riconoscimento delle caratteristiche comportamentali e culturali che rappresenta un passaggio imprescindibile per la creazione di un sistema integrato.

Così come avviene nelle relazioni individuali, avviene a maggior ragione in quelle sociali ed organizzative. Per riuscire a sviluppare decisioni ed azioni condivise, occorre mettere in preventivo un importante impegno di comprensione, di confronto e raffronto culturale, di allineamento valoriale, di decodifica del linguaggio. Investimento che non si esaurisce ad una certa data, che richiede una continua manutenzione esattamente come tutte le relazioni funzionali all’esercizio delle attività organizzative, ma che in fase di integrazione post acquisizione va dimensionato “in eccesso” rispetto alla norma proprio per recuperare il gap di conoscenza e di comprensione reciproca.

In particolare ci sono due dimensioni critiche da presidiare:

  • Dimensione individuale vs collettiva
  • Dimensione comportamentale vs culturale/Valoriale 

L’azione da mettere in campo, quindi, non distingue compratori da comprati: ciascuno dei due soggetti rientra con le proprie risorse in questa arena e, all’interno dei singoli perimetri, vanno svolte attività finalizzate allo sviluppo di una nuova identità, a favore di ciascun soggetto, volte a:

  • conoscere la controparte
  • riconoscersi reciprocamente
  • valorizzare le differenze
  • sintetizzare nuovi modelli comuni mirati ad affrontare temi comuni

Bisogna attuare un vero e proprio investimento in asset “immateriali”, che però porta frutti dolcissimi sia per gli azionisti che per le persone coinvolte, creando le condizioni per far sì che l’economicità dell’operazione si trasferisca dalle previsioni approvate in fase di studio e valutazione alla realtà quotidiana.

Un esempio? Invece di cominciare ad indire riunioni tra “rappresentanti delle medesime funzioni”, definire piccoli gruppi di lavoro paritetici, col compito di definire “come si fanno le riunioni? In che occasione è bene farle? A quale scopo è funzionale indirle? A che titolo vale la pena parteciparvi?” etc.

In questo processo il focus è sempre dedicato al “come”. Come attiviamo la conoscenza tra le persone? Come disegniamo i primi momenti di interazione che favoriscono il reciproco riconoscimento? Come facciamo in termini pratici a valorizzare le differenze?

Il “come” si fanno le cose in comune, diventa la nuova frontiera di elaborazione condivisa e quindi il nuovo collante per costruire non solo le spesso citate sinergie, ma i modelli comportamentali e culturali che rappresenteranno la sintesi della fusione delle due organizzazioni preesistenti. 

Attraverso questo processo si aiutano le organizzazioni a trasferire il focus dal “noi e voi” al “prima e dopo”, rendendo tutti gli attori ugualmente protagonisti del prossimo futuro.

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