Baby Boomer, Generazione X, Millennials e Gen Z: le differenze tra generazioni nel mondo del lavoro stanno diventando sempre più evidenti, ma ciò che le distingue maggiormente è l’attitudine al lavoro. Da un lato, per i più senior, la propensione al sacrificio, dall’altro, per i più giovani, l’attenzione al benessere. Ma come fanno due approcci così diversi a convivere? E soprattutto, sono davvero così differenti?
In questo periodo, più guardo al mondo del lavoro, più questo mi appare come un labirinto in cui aspettative e offerta sembrano destinate a vagare senza incontrarsi mai: da un lato, la Generazione Z cerca lavoro e non lo trova, dall’altro i datori di lavoro cercano nuovi dipendenti e non li trovano. Com’è possibile?
Me lo sono chiesto anche io, perché è evidente che la questione sia più controversa di così. Quindi ho provato a comprenderla. La chiave per districare la matassa potrebbe essere in una domanda: che cosa vogliono oggi i giovani che cercano lavoro? Spoiler: non (solo) lo stipendio.
Più ci penso e più mi rendo conto che quello che dovrebbe essere un tema di argomento economico-sociale in realtà sempre più sta diventando una questione generazionale. E le ricerche lo dimostrano: Baby Boomer, Gen X, Millennials e Gen Z sono diversi non solo sul piano anagrafico, ma soprattutto su quello delle caratteristiche, delle abitudini, dei desideri, dei valori e dei bisogni. E se le aziende vogliono attirare e trattenere nuovi talenti non possono non tenere conto di queste differenze.
La più importante? A parer mio, un cambio di approccio: al contrario di quanto hanno fatto i Baby Boomer e la generazione X, in buona parte votati alla carriera per arrivare a uno status economico più che soddisfacente (e almeno da questo punto di vista sembra ci siano riusciti!), quello che Millennials e Gen Z stanno cercando di far capire ai più senior è che non sono più disposti a sacrificare la loro vita privata per il lavoro. Confrontandosi con loro su ciò che è importante diventa chiaro che per le nuove generazioni il sacrificio ha un’accezione completamente diversa.
Lo testimoniano diversi studi, tra cui uno condotto da Randstad nel 2022 su un campione di 35 mila persone tra i 18 e i 67 anni, appartenenti a 34 paesi diversi: il 56% degli intervistati ammette che lascerebbe il suo lavoro se questo impedisse loro di godersi la vita. All’interno di quello a cui ambiscono, e che potremmo definire in maniera generica una “vita felice”, rientra tutto: la ricerca di un benessere fisico e mentale, la possibilità di seguire le proprie passioni e le proprie ambizioni extralavorative, il tipo di lavoro che si svolge e anche l’ambiente in cui lo si svolge, tanto che il 43% non accetterebbe un lavoro in cui l’ambiente non fosse inclusivo e attento ai bisogni di tutti.
Un’altra differenza che emerge con la generazione più senior è il concetto di appartenenza a un’azienda: se per i Baby Boomer entrare in un’organizzazione significava considerarla con molta probabilità quella in cui si sarebbe rimasti fino alla pensione, per i più giovani la flessibilità è un valore, tanto che il 40% degli intervistati cambia lavoro (volontariamente) in media ogni quattro anni.
Ricerca del benessere e possibilità di cambiamento: due concetti che tra loro sono strettamente collegati e che descrivono un modo nuovo di approcciarsi alla carriera.
I giovani: viziati…
Nel mio lavoro da Coach, mi interfaccio spesso con HR e top Manager e, per quelli tra loro che rientrano nella categoria di Baby Boomer e Gen X, è evidente quanta difficoltà ci sia a capire le nuove generazioni: la diversità di visione del mondo crea in loro confusione e genera incomprensioni che li portano a vedere i giovani come sfaticati, svogliati, o con poca motivazione, voglia o bisogno di lavorare.
Ma la realtà è molto diversa. Facendo sempre riferimento alla ricerca di Randstad, emerge che i più giovani, proprio perché la generazione dei loro genitori ha raggiunto la stabilità, il “successo” comunque lo intendessero, comprendono a pieno l’importanza di avere un lavoro soddisfacente in termini economici (75%), ma allo stesso tempo sono preoccupati per l’incertezza del contesto in cui si muovono (52%) e sono consapevoli e spaventati all’idea di non poter andare in pensione all’età che vorrebbero (70%). Tutto questo è causa di un grande nemico che non giova alla situazione di stallo in cui spesso Millennials e Gen Z si ritrovano, ovvero l’ansia: circa una persona su due nella fascia di età under 40 soffre o ha sofferto di ansia, causata da vari fattori (tra cui la pandemia, la guerra, la situazione climatica ecc) e la situazione economico-lavorativa, con la paura di non farcela a raggiungere i propri obiettivi, qualunque essi siano, ha un fortissimo impatto su questo aspetto. Dobbiamo quindi considerare tutto per scavare a fondo tra i motivi di malessere e insoddisfazione: promesse disattese, fatiche che rischiano di non valere nulla, incertezza. Così si arriva a scoprire che il problema del futuro è il futuro stesso, perché, per come stanno le cose oggi, nessuno può sapere realmente che cosa il domani può avere davvero da offrire.
In un contesto come questo, cosa possono fare le aziende per attirare talenti giovani e renderli di nuovo motivati?
Il punto è che le argomentazioni che fino a qualche anno fa potevano fare molta presa, come le prospettive di crescita o l’aumento di stipendio, oggi non funzionano più. Questo ha creato uno sbilanciamento dei rapporti: se prima erano le aziende a offrire lavoro, oggi sono i professionisti a offrire loro stessi e, di conseguenza, in qualche modo dettano le regole, o quanto meno fanno sì che si modifichino.
È venuta a crearsi, quindi, un’interruzione nella comunicazione tra i due cluster di età che, a livello più superficiale, rende difficile (se non impossibile) spiegare reciprocamente le proprie esigenze e aspettative, e a livello più profondo dimostra che il paradigma che le aziende hanno utilizzato fino ad ora non è più applicabile alla realtà di oggi.
Con le generazioni più senior, i giovani hanno visto qual è il prezzo che è stato pagato per il successo, in termini di stress, di salute, di tempo libero mancante o di perdita di se stessi. Credo che la conseguenza di questo sia la loro reazione al messaggio “se ti impegni ce la fai”, ovvero una totale repulsione. Davanti alla prospettiva di un sacrificio così grande, come quello del proprio benessere psicofisico, l’unica risposta per loro è: io quella vita non la voglio e non la faccio.
… o meritevoli di essere ascoltati?
Come affermano Maura Gancitano e Andrea Colamedici nel loro ultimo libro Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo, la differenza tra generazioni vecchie e nuove si può riassumere nell’evoluzione del famoso slogan di Steve Jobs: da Stay hungry, stay foolish a Stay hungry, stay goulish (mostruosi).
“A differenza del motto Stay hungry, stay foolish, l’invito [Stay hungry, stay goulish] a essere arrabbiati e mostruosi vuole spingere le persone a non accettare passivamente le cose così come sono, ma a cercare di cambiarle senza farsi intimidire dalle sfide e dagli ostacoli, e in particolare dall’idea che ormai il mondo abbia assunto una certa forma immutabile”.
Una schiera di mostri, quindi, sta invadendo il mondo del lavoro, con l’ambizione di cambiare le cose. Ma come spesso accade con i mostri, bisognerebbe avere il coraggio di guardarli bene per accorgersi che in realtà non sono così diversi da noi. I messaggi che stanno portando avanti le giovani generazioni, infatti, non riguardano solo i loro bisogni, ma i bisogni di tutti: per questo se la loro missione di attirare l’attenzione su alcuni temi è, da un lato, un gesto di coraggio e autodeterminazione, dall’altro è anche e soprattutto una grande richiesta di dialogo. Infatti è nel momento in cui ci si parla davvero che ci si può rendere conto che i due blocchi generazionali, all’apparenza così distanti, in realtà sono molto vicini, e che i bisogni tanto manifestati degli uni, in realtà non sono poi così diversi da quelli degli altri.
Le priorità dei più giovani, come l’importanza della cura di sé (riconosciuta, secondo la ricerca Trend Radar di Samsung in collaborazione con Human Highway, da 8 persone su 10), del benessere psicologico (rilevante per l’88% della Gen Z) e del tempo libero per sviluppare le proprie passioni (fondamentale per il 58%), se accolte possono davvero portare a un cambiamento radicale nelle organizzazioni per persone di tutte le età, tanto che le loro argomentazioni stanno mano a mano facendo presa anche sui più senior.
Ascoltarli, quindi, alle aziende conviene: non solo perché gli under 40 stanno dimostrando a suon di Great Resignation, Quiet Quitting e “meglio disoccupati che infelici” che non ci stanno più alle regole che ha messo qualcun altro, ma anche perché il loro modo di pensare, il loro bisogno di cercare un senso in ciò che si fa, di mettere se stessi nel lavoro anziché farsi mettere da parte dal lavoro, può essere uno stimolo per le organizzazioni.
È quindi il momento di costruire un dialogo tra generazioni, che metta in discussione il paradigma attuale per dare più spazio al valore degli individui e, di conseguenza, delle aziende.