LA RICERCA DI UNA SOLUZIONE TERZA: VERSO UNA POST-MERGER ACQUISITION AND INTEGRATION DI SUCCESSO

Quello che si osserva ancora in molte acquisizioni o fusioni aziendali, è che a fare notizia e ad essere vissuta con intensità è solo la fase di preparazione e di finalizzazione del “deal”. La fase successiva, che invece è quella davvero capace di determinare il successo delle operazioni, passa per lo più sotto silenzio. Oppure, si pensa di poterla ‘risolvere’ facilmente, spesso con tempi e modi semplicemente impraticabili.

Una possibile chiave di lettura è che a determinare il fallimento di molti di questi processi sia precisamente l’attitudine a sottostimare il severo processo di integrazione che ha inizio solo a valle del “closing”. La maggior parte delle operazioni di fusione e acquisizione non hanno successo probabilmente proprio perché gli attori coinvolti pongono grande attenzione alla fase di valutazione dell’operazione, ovvero quella preliminare, invece che a quella davvero determinante che comincia solo dopo la realizzazione dell’operazione stessa.

Questa è una fase per essere efficace può comportare mesi, a volte anni con risultati assolutamente incerti e volatili. La buona riuscita dell’effettivo processo di integrazione può dar vita davvero a nuove organizzazioni molto potenti e performanti ma può anche distruggere l’intero valore dell’operazione fino a mettere a rischio la sopravvivenza stessa delle aziende che hanno dato vita al “deal”.

Di conseguenza, quello che accade è che, nel migliore dei casi, prima che il processo si concluda, venga metabolizzato, e si raggiunga un assetto vantaggioso per entrambe le realtà coinvolte, trascorrono lunghi e difficoltosi periodi costellati da risultati in perdita e da sacrifici finanziari e sociali molto severi. Il processo di integrazione diventa fonte di conflitti interni, di continue revisioni e aggiustamenti, di ri-organizzazioni che si succedono senza sortire gli effetti desiderati.

Ma quali comportamenti e decisioni, più precisamente, portano all’insuccesso?

La “famigerata nuova organizzazione”

Principalmente, si tratta di una serie di liturgie compiute a valle dell’acquisizione, che invece, per essere efficaci e funzionali, dovrebbero essere attuate solo a processo avviato.

L’attitudine ricorrente consiste nel tentativo di stabilire la “nuova organizzazione” quasi subito, attraverso la combinazione delle attività delle due aziende coinvolte, dalla cui unione si intende di poter ottenere un’unica realtà funzionante. In sostanza viene disegnato un nuovo organigramma che distribuisce compiti e responsabilità in base al nuovo perimetro aziendale e (più o meno) ci si “infilano” dentro le persone…fino ad esaurimento posti.

Spesso per rendere ancora più veloce ed “eseguibile” la “nuova organizzazione”, si sceglie come modello una delle due strutture precedenti – solitamente quella dell’acquirente – pensando di poterla applicare in maniera quasi meccanica anche alla nuova realtà. Il problema non è solo che in questo modo chiaramente si ottiene l’annientamento e l’assoggettamento dell’azienda acquisita; è anche e soprattutto che l’organizzazione che funzionava per l’azienda acquirente non è detto che funzioni anche per la nuova realtà, sorta appunto dalla combinazione delle due. Anzi, è molto poco probabile che funzioni proprio perché pensata per un perimetro e per un posizionamento strategico non necessariamente speculare a quello che ha preso vita attraverso l’acquisizione.

Ma se non fosse per questo entrano in campo le culture, i valori, le prassi comportamentali delle persone che si sono formate nell’una o nell’altra organizzazione. Queste dimensioni, non necessariamente tracciate ed evidenti, emergono con forza quando le persone vengono riallocate, ri-assegnate e riportate nella nuova struttura organizzativa.

Sono queste le determinanti del mancato funzionamento dei processi, delle leve gerarchiche, della comunicazione tra uffici e dipartimenti. E sono queste che traggono ancora maggiore vigore si “radicano” nel sentire delle persone, ma anche nel loro linguaggio.

Personalmente posso testimoniare di decine di aziende in cui, a anni di distanza, si sente ancora parlare di “noi e loro” di “rossi” e di “blu” di “questi e di quelli”. E mentre queste identificazioni popolano il gergo quotidiano, i comportamenti che ne sono il riflesso pratico minano la creazione di valore dell’organizzazione e lo sforzo di integrazione.

Il rigetto

Qual è la conseguenza immediata del nuovo assetto organizzativo?

Una sorta di ‘rigetto’, un rifiuto di tipo comportamentale, da parte delle persone, che si concretizza in tradizionali asserzioni scultoree quali «si stava meglio prima» «ma si è sempre fatto così», controbilanciate all’opposto da «ma adesso dobbiamo fare così».

Si verifica cioè una non-accettazione della nuova configurazione, vissuta come un’imposizione forzata e non naturale: chiunque abbia navigato questi mari ha provato sulla sua pelle come nelle aziende, così come nei soggetti “biologici” si verifichi una crisi di rigetto, che è in realtà primariamente di carattere sociale e culturale.

In tutti questi casi, non viene preso sufficientemente in considerazione che ogni ‘trapianto’ va accompagnato necessariamente da una robusta cura per così dire ‘fisioterapica’, per far sì che i soggetti individuali, portatori delle loro culture, e sociali costituiti dall’insieme delle attività svolte nelle due organizzazioni, possano trovare una soluzione terza rispetto a quelle da cui ciascuna di esse proviene.

La ricerca di questa soluzione è così, nel migliore dei casi, intrapresa come rimedio alla crisi di rigetto – nel peggiore dei casi invece non c’è bisogno: il rigetto è stato così potente da compromettere definitivamente l’operazione. È solo a valle del rigetto che di solito le organizzazioni decidono di investire su una trasformazione culturale attraverso sistemi, procedure, corsi di formazione e programmi di sviluppo, rovesciando sul tavolo tutta la strumentazione che sarebbe stato utile sfoderare ben prima. La nuova fase di progettazione, istituita per ingaggiare le persone verso una nuova rappresentazione dell’organizzazione e della cultura aziendale, può effettivamente, attraverso progressivi assestamenti, condurre a nuova configurazione, anche funzionante; ma l’intero processo ha nel frattempo implicato costi economici notevoli, che si potevano evitare.

La ricerca di una soluzione efficace

Proprio questa ricerca di una soluzione altra rispetto a quelle esistenti, ovvero la costruzione di una terza realtà, con una sua nuova identità, è infatti l’unica via per il successo di una vera integrazione.

Tutta la fase descritta sopra, e la crisi che ne consegue, potrebbero quindi facilmente essere evitate, sostituite già in partenza con un più efficace programma di sviluppo culturale, orientato a costruire un modello organizzativo davvero nuovo.

L’unica strada profittevole è la riprogettazione dell’organizzazione e della cultura aziendale: una sorta di “sintesi hegeliana”, in cui attraverso un movimento attivo di creazione ha luogo una nuova configurazione, più efficace, che non coincide con le precedenti, ma che piuttosto ne valorizza le particolarità e i punti di forza, perché nasce da uno scambio genuino e da un incontro fruttuoso.

Inoltre, così come le regole per una buona convivenza tra due inquilini non possono essere decise prima che la convivenza abbia concretamente inizio, allo stesso modo il nuovo assetto organizzativo non può essere stabilito prima che l’acquisizione sia iniziata. Si tratta appunto di un percorso di costruzione e di integrazione, che richiede un impegno e un lavoro costante, perché non può essere concluso in modo efficace nell’immediato.

Come, dunque, agire concretamente per essere efficaci?

Verso una Post-merger Acquisition e Integration di successo

Per puntare al successo dell’operazione occorre combinare strumenti diversi in base ai differenti momenti e aree dell’organizzazione, proprio per condurre alla creazione di questa terza realtà, cercando di coinvolgere le due originarie in un dialogo costruttivo e fiorente per entrambe. Così, attraverso l’applicazione mirata di metodologie, tecniche e strumenti ancorati alla maieutica, basati su modelli “naturali” di apprendimento e sviluppo, si può rendere possibile non solo la “visualizzazione” ma anche la pratica di una cultura terza, fatta di comportamenti diffusi e consistenti nel tempo.

Gli strumenti disponibili sono molteplici e il loro utilizzo articolato e mixato rappresenta un esercizio mirato e potente. I più ricorrenti tra questi che si osservano già in processi di integrazione sono il Tutoring, il Mentoring, le Coaching Conversation, i Team e i Group Coaching. Questi strumenti consentono tra l’altro di attuare comportamenti funzionali al benessere e al successo di tutte le parti: innanzitutto il dialogo, l’ascolto attivo delle esigenze e delle aspettative di tutti, lo sforzo di comprendere le differenze.

Sono tutti strumenti che combinano l’approccio maieutico alla fluida naturalità che li contraddistingue in fase di implementazione. Si possono avviare e utilizzare sia con risorse interne, sia con risorse esterne e sanciscono complessivamente una crescita ed una evoluzione visibile della cultura organizzativa.

Insieme a questo percorso ed all’esito di questo, la “nuova struttura organizzativa” non sarà più percepito come un oggetto “impiantato”, ma come una possibile soluzione dei bisogni organizzativi temporaneamente ideale. Temporaneamente, perchè tutti sappiamo che la prossima riorganizzazione è sempre in agguato, dietro l’angolo.

L’investimento nella trasformazione culturale e comportamentale delle persone resta l’unica possibilità di successo nelle operazioni di integrazioni, anche di quelle a valle di acquisizioni e fusioni. L’obiettivo finale è rendere invisibili le radici delle culture pur salvaguardandole, facendo in modo che tutte indistintamente si rispecchino in modo autentico nella nuova cultura.

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