Lo smartworking è morto. Lunga vita ai giovani smartworker!
Remote working, hybrid working, back to office: qualunque sia la strada scelta da un’azienda con la fine dello stato di emergenza, riuscire a trovare il modo più efficace di organizzarsi senza compromettere né il benessere dei collaboratori né le performance è niente meno che una necessità. Abbiamo chiesto a Roberto Degli Esposti, Managing partner di Performant by SCOA, di darci un quadro di come sta andando il delinearsi di questo new-normal ed è emersa una preoccupazione diffusa riguardo a quella che sembra essere la sfida più grande per i Manager di oggi: come fare, in una situazione così frammentata, a formare i Manager di domani?
Non era uno scherzo: dal primo di aprile lo smartwroking non è più un diritto, ma un accordo da stipulare tra aziende e dipendenti. Un segnale che indica che lo stato di emergenza da Covid-19 è finalmente terminato (e questa è innegabilmente una buona notizia), ma che apre le porte a una necessità da cui le aziende non possono tirarsi indietro: quella di riorganizzarsi.
Il mondo non è più quello del pre-pandemia, ormai tutti e tutte ci siamo abituati al lavoro da remoto, ne percepiamo i vantaggi sulla nostra vita sia lavorativa che personale e il work-life balance che il lavoro da qualunque posto non sia l’ufficio permette di raggiungere è un tema che non si può ignorare. Questi però non sono gli unici argomenti però che meritano attenzione: ci sono le performance, l’engagement, il senso di appartenenza, che vanno altrettanto tenuti in considerazione per le organizzazioni, perché, altrimenti, rischierebbero di vedere bloccata la propria crescita.
È innegabile che se da un lato c’è un riconoscimento unanime dell’utilità dello smartworking, dall’altro c’è anche la paura che il lavoro da remoto faccia sfilacciare le relazioni e renda più difficile valutare, far crescere e trattenere i talenti.
Qual è stata quindi, soprattutto in questi due mesi di “ritorno alla normalità”, la risposta delle aziende a questi rischi? Forse la strada più facile e pericolosa allo stesso tempo: chiedere ai collaboratori di tornare in ufficio.
Back to office: che cosa sta succedendo in Italia?
Facciamo un po’ di storia. Secondo l’Osservatorio Smartworking del Politecnico di Milano, nel 2019 gli smartworker italiani erano 1,15 milioni. Poi è arrivata la pandemia, con il lockdown che ha costretto tutti quelli che potevano a lavorare da casa, ma anche quando le restrizioni sono terminate il numero di remote worker è rimasto molto alto: 2,8 milioni nel 2022 per diventare 3,58 milioni nel 2023.
Un esercito di smartworker pari, se dovessimo fare un paragone, agli abitanti di Roma e Torino messi insieme.
Il 2024 poi ha visto l’assestarsi della tendenza del lavoro ibrido per la maggioranza delle aziende (adottato come new normal dal 68% delle organizzazioni italiane secondo la Hays Italia Salary Guide), ma anche la crescita di un’altra tendenza che va in contrapposizione: quella del ritorno obbligatorio in ufficio, se non al 100% del tempo (scelta comunque portata avanti dal 31% delle aziende), almeno 2 o 3 giorni a settimana.
A testimonianza di questo cambiamento, oltre alle notizie che arrivano da oltreoceano e che riportano come siano stati proprio i colossi del digitale come Meta, Google, Disney e Zoom a imporre il ritorno in ufficio almeno al 40% del tempo, si possono prendere in esame le posizioni aperte su Linkedin: se nel 2022 il 22% degli annunci cercava persone disposte a lavorare in full remote, nel dicembre del 2023 questo dato è sceso all’8%.
Smartworking? Non è un mestiere per giovani
Nella visione generale verrebbe da pensare che quelli che più di tutti subiscono la “febbre da smartworking” siano i giovani. E invece non è così: il rapporto BES dell’Istat pubblicato a metà aprile e relativo ai dati del 2023 mostra come i protagonisti del lavoro da remoto, in Italia, siano le persone appartenenti alla fascia 35-44, con lavori in settori ad alta specializzazione.
Se dovessimo fare un identikit completo dello smartworker medio, potremmo dire, oltre all’età anagrafica, che possiede una laurea (i laureati lavorano da remoto in media nell’11,2% dei casi, contro il 6,1% della media nazionale), che lavora nella comunicazione (15,2%) o nella finanza e assicurazioni (12,3%) e che vive principalmente nel Nord-ovest (8,5%) o Nord-est (7,8%) del paese (la media dello smartworking al sud è di 4,2%, mentre scende al 3,8% nelle isole).
Che lo smartworking sia una “cosa da Millennials” non è una tendenza solo nostra, ma che emerge a livello europeo. Secondo lo studio Talent Trends for Europe 2023 condotto da ACCA, se solo 1 lavoratore su 3 tra i 25 e 57 anni è tornato tutti i giorni in ufficio, il back to office è diventato una realtà per il 64% della Gen Z.
Un dato che non rende tutti felici, visto che 9 lavoratori su 10 dichiarano di voler lavorare da casa almeno un giorno alla settimana e addirittura di essere più produttivi da remoto.
E allora perché a queste persone che hanno fatto il liceo o l’università completamente in DAD, abituate a vivere online tutte le sfumature della loro vita, viene richiesto lo sforzo di tornare in presenza, anche a costo, a volte, di perdere un talento che preferisce lavorare da remoto? La preoccupazione è una sola: la crescita.
Manager di oggi, Manager di domani: che ne sarà dei giovani
Recentemente, come Performant, abbiamo seguito un progetto con una società di consulenza dedicato a trovare delle macro regole per gestire quello che fin dai primi accenni di fine pandemia abbiamo imparato a chiamare new normal, ovvero, in campo professionale, un modo di lavorare che tenga conto delle necessità e delle comodità scoperte con il lavoro da remoto, ma che allo stesso tempo garantisca l’efficacia delle performance e la condivisione di valori e obiettivi.
Dalle interviste che abbiamo svolto su persone di diversi gradi di seniority, differenti ruoli ed esperienze, è emerso uno scenario completo e interessante riguardo al tempo che è necessario passare in ufficio (o, per le posizioni che lo prevedono, dal cliente) e ai motivi che spingono oppure ostacolano il back to office.
C’è chi dichiara (soprattutto tra i più junior) di essere più produttivo da casa, chi invece (principalmente senior) evidenzia come l’ufficio sia un posto in cui è possibile confrontarsi e trovare nuove idee, chi lamenta il tempo e la spesa necessari per raggiungere la sede e chi sostiene che l’azienda dovrebbe creare più momenti fissi di incontro intra e cross team per motivare le persone a tornare.
Però c’è, come dicevamo, una preoccupazione trasversale a tutte le sedi, tutte le fasce di età e tutti i ruoli: come faranno quelli che hanno iniziato a lavorare durante lo stato di emergenza a sviluppare le capacità di gestione necessarie per crescere se non si interfacciano mai personalmente con i colleghi? Che manager diventeranno continuando a preferire il remote working?
È davvero una domanda che accomuna tutti i livelli della gerarchia: i più giovani, se da un lato sono contenti di poter restare magari in città diverse da quelle delle sedi principali, dall’altro si sentono isolati, poco partecipi di quello che succede in azienda e anche se la narrazione proposta è che le possibilità di carriera siano uguali indipendentemente dal luogo di lavoro, in realtà poi è innegabile che chi va in ufficio abbia più opportunità. E non è solo una questione di relazione (anche se vedere di persona il proprio Manager solo una volta all’anno di sicuro è diverso che vederlo tutte le settimane), ma anche proprio di competenza acquisite, perché frequentare l’ufficio significa avere l’opportunità di cogliere quell’apprendimento passivo che deriva dall’osservare, dal sentire, dal farsi raccontare cosa succede sui progetti degli altri.
Perché questo succeda però non sono solo i giovani a dover tornare in ufficio, ma anche i senior: che ci va a fare il junior in ufficio se il suo senior o i suoi colleghi in generale non ci sono o passano la maggior parte del tempo in call con persone lontane? Ci sono Manager volenterosi che magari spendono ore in call con lo schermo condiviso per condividere le loro conoscenze con chi un giorno potrebbe prendere il loro posto, ma non serve una grande esperienza in management per comprendere innanzitutto che non è la stessa cosa e secondariamente che non sempre è fattibile.
Quindi la necessità di formare i Manager di domani porterà alla morte dello smartworking?
Lo smartworking molto probabilmente non morirà del tutto, ma è necessario riorganizzare le abitudini delle aziende, che saranno diverse in base al contesto, alle necessità, alla grandezza dell’organizzazione, per trovare il modo specifico di assicurarsi che le performance rimangano alte.
E quello che più di tutto deve cambiare è il modo di svolgere il ruolo di Manager: un elemento molto diverso dallo stile di leadership. Si può avere ad esempio uno stile di leadership molto direttivo, eppure da Manager lasciare lo spazio e creare le condizioni perché chi ha un ruolo gerarchicamente più basso possa crescere e apprendere tutte le competenze di cui avrà bisogno un giorno.
C’è una verità che non va dimenticata: non sappiamo tra dieci anni quali saranno le caratteristiche che serviranno ai futuri Manager, quindi pretendere di formarli come sono stati formate le persone che hanno fatto carriera fino a dieci anni fa non ha molto senso.
Tutto quello che si può fare oggi è coinvolgerli, trovare il modo di fare knowledge sharing sia da remoto che in fisico, salvarli dall’isolamento e renderli partecipi del senso di ciò che si fa. Dare la possibilità a loro di costruire la loro modalità di fare i Manager e a noi senior di stupirci di come sapranno trovare una strada per essere efficienti a cui noi oggi non riusciamo a pensare.
Lo smartworking non è morto e molto probabilmente non morirà. La possibilità di non far morire i Manager del futuro, quindi, non dipenderà dal luogo da cui si lavora, ma da come i Manager di oggi sapranno adattarsi alle necessità della nuova generazione.