Reverse mentoring: uno strumento per la crescita intergenerazionale

Reverse mentoring: uno strumento per la crescita intergenerazionale

Reverse mentoring: uno strumento per la crescita intergenerazionale

Nelle aziende si parla molto spesso di trovare il modo più efficace di seguire le persone più giovani: come formarle, come farle crescere, come tenerle ingaggiate. Il mentoring è, giustamente, un tema su cui ci si concentra per raggiungere questi obiettivi. Ma proviamo a ribaltare la prospettiva: che cosa succederebbe se anziché pensare a quello che chi occupa i gradini più bassi della scala gerarchica dovrebbe imparare, ci si focalizzasse su quello che hanno da insegnare? È proprio questo che succede con il reverse mentoring. Vediamo insieme cos’è e quali sono i suoi effetti.

Era il 1999: internet cominciava a diffondersi nella vita, soprattutto lavorativa, delle persone e imparare a utilizzarlo prima dei competitor poteva dare un grande vantaggio alle aziende. Buona parte del personale delle organizzazioni, però, apparteneva a una generazione più “grande”, che non aveva idea né delle potenzialità di questo strumento, né, a conti fatti, di come si usasse. Quando ha percepito quello che oggi chiameremmo skill gap, Jack Welch, che in quegli anni era CEO di General Electrics, ha avuto un’idea: chiedere a cinquecento dei suoi top Manager di trovare giovani risorse che potessero spiegare al team come usare Internet.
Era il primo caso di reverse mentoring.


Che cosa si intende con reverse mentoring?

I benefici del mentoring tradizionale sono ormai ampiamente noti (tanto che il 76% delle persone che lavorano ne riconoscono l’importanza), ma c’è anche un’altra faccia della mentorship che vale la pena di approfondire perché può dare alle aziende numerosi vantaggi: si tratta del reverse mentoring, una pratica di cui negli ultimi anni si sta cominciando a parlare, ma che per ora viene applicato solo dal 12% dell organizzazioni, come dimostra lo studio del CIPD, Learning at Work 2023.

Il reverse mentoring è, per dirla in breve, un mentoring al contrario, in cui è la fascia più giovane a insegnare qualcosa a quella più senior: in inglese, mentoring in reverse, appunto. Per metterlo in atto è necessario innanzitutto cambiare la prospettiva con cui i programmi di mentorship si organizzano. Non si tratta infatti di chiedere a una persona con più esperienza di prendere sotto la sua ala qualcuno di meno esperto, ma di creare una relazione che sia proficua da entrambi i lati, sviluppando competenze comportamentali come il knowledge sharing, l’apertura al cambiamento, l’ascolto e, soprattutto, la sospensione del giudizio.

Questo ultimo punto può essere fondamentale: nel mondo del lavoro di oggi convivono infatti ben quattro generazioni differenti e ognuna si porta dietro dei pregiudizi nei confronti dell’altra (il primo tra tutti, sostenuto con più frequenza dai Boomer, secondo cui la Gen Z sia viziata e poco propensa al sacrificio). Creare occasioni di confronto e scambio tra persone anagraficamente così distanti può fare da motore per quel dialogo che è necessario per scardinare tutti i preconcetti che impediscono la collaborazione intergenerazionale.

 

Reverse mentoring: uno strumento per la crescita intergenerazionale

I tanti vantaggi del reverse mentoring

Come abbiamo visto con l’aneddoto della GE (General Electrics), il reverse mentoring è nato per portare e diffondere in azienda un livello più alto di competenze tecnologiche e digitali, ma, nonostante questo resti un vantaggio importante, non è l’unico per cui questa pratica sia una strada particolarmente fruttuosa per le aziende, creando un impatto positivo anche a lungo termine. Vediamo alcuni dei benefici più rilevanti che possono derivare dal rendere il reverse mentoring un’abitudine nelle organizzazioni:

  • migliora la retention e le relazioni tra le persone: stando a una ricerca di AdeccoGruop, il 45% dei Millennials non esclude di cambiare lavoro nei prossimi due anni, se si dovesse presentare una migliore occasione per crescere professionalmente. Questo dato parla chiaro: per gli under45 l’attaccamento all’azienda è molto basso. Nelle aziende in cui si applica il reverse mentoring, però, la situazione cambia, e non di poco: nel 2017 l’azienda americana Pershing ha cominciato il suo progetto di reverse mentoring e, come si racconta in un’intervista rilasciata all’Huffington Post, ha visto salire il tasso di retention tra i Millennials al 97%. Un numero davvero altissimo, reso possibile grazie al fatto che questa pratica mette in evidenza come l’azienda abbia a cuore la crescita e lo sviluppo professionale delle persone, facendole sentire valutate e arricchite, come riesca a fare employer engagement puntando sulle relazioni e sulla trasparenza e quanto reputi importante la comunicazione tra persone, promuovendo così un ambiente lavorativo che sia davvero un terreno fertile per la promozione dei talenti.
  • promuove una cultura aziendale fondata sui principi di DE&I: su questo tema, Guider ha anche scritto il paper How to Improve Diversity and Inclusion with Reverse Mentoring. Il reverse mentoring, infatti, fa sì che le decisioni vengano prese includendo nei gruppi persone con background e caratteristiche diverse, anche appartenenti a minoranze, rendendo così gli output il frutto di differenti punti di vista. Il processo di apprendimento che scaturisce ascoltando e facendo sentire ascoltate persone di età più giovane, disabili, appartenenti alla community LGBTQ+, va a intaccare quella tendenza alla conformità che ha caratterizzato le aziende per decenni, promuovendo al contrario una cultura davvero inclusiva, orientata al cambiamento e alla realizzazione di una effettiva equità. Un caso di successo in questo senso è rappresentato dal Reverse Mentoring Programme che PwC ha iniziato ben nel 2014, coinvolgendo oltre 120 Millennials come mentors e circa 200 Manager ed Executive come mentee, con l’obiettivo di avvicinare i senior a tematiche con cui avevano meno dimestichezza, come quelle etniche o di gender.
  • creare spazio per l’acquisizione di competenze di leadership nelle fasce più giovani: investire le persone junior del ruolo di mentor, oltre a dare loro un segnale di quanto si tenga alla loro crescita, dà vita anche all’opportunità per chi è all’inizio della carriera di sviluppare capacità di leadership che altrimenti potrebbe metterci anni a imparare, come una comunicazione più efficace, l’empatia, l’importanza di porre domande aperte, la consapevolezza e, non ultima, la responsabilità di essere un modello per ispirare colleghi e collaboratori di tutti i livelli gerarchici.
  • alfabetizzare le persone alle emozioni: per molto tempo nei contesti organizzativi c’è stata la tendenza a schiacciare l’aspetto emotivo dell’essere umano. Recentemente per fortuna questa tendenza si sta invertendo: le emozioni possono essere una leva che fa la differenza nella creazione di una cultura del cambiamento. Crescere in un ambiente di lavoro in cui l’aspetto emotivo viene tenuto adeguatamente in considerazione può aiutare a far venire a galla situazioni di scontento, frustrazioni, conflitti, e quindi dare a tutte le persone coinvolte la possibilità concreta di vedere arrivare i problemi e intervenire prima che diventino troppo grandi.
Reverse mentoring: uno strumento per la crescita intergenerazionale

Matching, commitment e creatività: le chiavi di un progetto di reverse mentoring

Quando un’azienda decide di attivare al suo interno un progetto di reverse mentoring, il primo passo da svolgere è senza dubbio definire l’obiettivo: perché è necessario partire? Che cosa si vuole che i mentee imparino? Chiarire e comunicare questo punto è fondamentale, ma da solo non basta: ci sono altri fattori che possono fare la differenza tra un mentoring efficace e uno poco proficuo.

Da considerare senza dubbio è il corretto matching: come in tutte le relazioni che si costruiscono, la formazione di una coppia che funziona è complicato tanto quanto essenziale. È importante stabilire una corrispondenza tra competenze offerte e richieste, ma anche valutare la dimensione personale e gli interessi comuni, evitando l’abbinamento di persone che potrebbero attivare reciprocamente bias inconsci. Una buona pratica potrebbe essere anche quella di chiedere il parere di mentor e mentee coinvolti prima di rendere il matching ufficiale, aumentando così il coinvolgimento.

C’è poi un aspetto che nelle relazioni di aiuto non dovrebbe mai mancare, ovvero il commitment: partecipare a un programma di questo tipo può suscitare dubbi, paure, diversi gradi di fiducia, tutti elementi che vanno debitamente ascoltati per tracciare insieme la strada migliore per procedere (torniamo all’alfabetizzazione emotiva di cui parlavamo prima). È importante valutare anche che le persone coinvolte (in questo caso soprattutto il mentee, che è più senior) sia disposto ad attuare quel cambio di prospettiva necessario per attivare il learning mindset anche quando si trova davanti qualcuno con minore esperienza.

Il livello di ingaggio, ovviamente, può modificarsi anche in base a come si pone il mentor, che ha la possibilità di dare sfogo alla sua creatività per andare incontro all’altro: usare tecniche di storytelling, proporre esercizi come role-play, descrivere case study o anche proporre la partecipazione ad eventi di networking, sono tutte strategie che possono concorrere a raggiungere l’obiettivo.

Il reverse mentoring, se ben organizzato, può trasformarsi in una vera e propria arma per HR e Manager per sviluppare competenze specifiche e fondamentali per lo sviluppo professionale di quella popolazione più giovane che sempre di più sembra difficile da coinvolgere.

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