Si fa presto a dire Mentoring

Una tendenza delle aziende in questi ultimi anni è quella di implementare programmi di Mentoring al loro interno. Già in alcuni articoli abbiamo affrontato queste tematiche, ma oggi, mi piacerebbe condividere con voi qualche riflessione sul significato di questi programmi e su una loro possibile evoluzione.

A seconda delle società di consulenza che affiancano le organizzazioni, esistono diverse implementazioni di questi progetti che hanno in comune un valore tangibile: mettere in relazione coppie di persone all’interno dell’organizzazione che dedicano del tempo per fermarsi, conoscersi e riflettere insieme su temi rilevanti per loro e per l’organizzazione.


A volte l’organizzazione è più sullo sfondo e la relazione di Mentoring viene vista in maniera più individualistica, come opportunità di sviluppo per la risorsa: il Mentee che si sta confrontando con un Mentor. Altre volte, i Mentor riconoscono il confronto anche in favore del proprio sviluppo. Questo è appena normale: l’essere umano è un’entità relazionale che si sviluppa e apprende nella relazione con gli altri.

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Dall’Io al Noi

In questa sede, propongo di aggiungere, all’interno di questi programmi, un punto di vista in più, che vada oltre l’individualismo dello sviluppo dei singoli all’interno dell’organizzazione grazie all’aiuto di terzi.

Il punto di vista è quello, più sistemico, dello sviluppo di relazioni generative – tutte quelle relazioni che tramite il dialogo generano uno sviluppo per individui e risultati più efficaci – all’interno dell’organizzazione.

Relazioni generative tra coppie Mentor-Mentee, che si possono creare anche tra i Mentor, oppure tra i Mentee e, ancora, tra il gruppo dei Mentor e il gruppo dei Mentee; e poi, a seguire, c’è la relazione tra il gruppo che sta partecipando il programma e il resto dell’organizzazione con cui il gruppo e i singoli sono collegati. Possiamo dare significato al “Noi” come organizzazione, oltre che al singolo individuo; allo sviluppo del Noi oltre allo sviluppo del singolo.

 

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Programmi di sviluppo dell’infrastruttura relazionale e della riflessività

Se aggiungiamo questo punto di vista, questi programmi possono essere già valorizzati per lo sviluppo della relazionalità nell’organizzazione. E per spostare l’attenzione sul Noi più che sull’Io.

L’altro aspetto per cui li possiamo valorizzare riguarda la generazione di riflessività nell’organizzazione. Mi riferisco a individui che si fermano per un momento, si connettono, si confrontano, riflettono insieme, contribuiscono alla circolarità delle informazioni, alla creatività e alla generatività di nuove idee.

Viviamo in organizzazioni in cui sono richieste performance sempre maggiori, in un tempo sempre più breve, con sempre meno persone e risorse, con agende piene ad oltranza. Le risposte più comuni alla domanda “come stai?”, dopo il gettonato “bene”, sono: “periodo tremendo, super impegnato”, “in questi giorni sono presissimo”, “…incasinato”, “ah…questo è un periodo terribile”. 

E, mentre le persone cercano di mettere sempre più impegni nella loro agenda già piena, sono continuamente distratte da nuove mail, messaggi sullo smartphone, su teams, su Slack, notifiche di ogni tipo, telefonate. E nonostante tutte queste connessioni, spesso la sensazione è quella della solitudine.

L’ansia e la pressione che si percepisce nelle aziende sono pessime alleate per gestire la complessità che richiede invece la capacità di prendersi tempo per fermarsi e riflettere prima di agire.

Questi programmi che si prendono cura dell’infrastruttura relazionale dell’organizzazione e della sua capacità riflessiva, che permettono agli individui di prendersi del tempo per relazionarsi con altri individui e riflettere su temi rilevanti per loro e per l’organizzazione, sono un antidoto alla reattività impulsiva generata dalla frenesia e dalla pressione.

E quando l’ansia e la frenesia scendono nell’organizzazione, il potere creativo e la capacità di innovazione aumentano.

Questi programmi hanno senso anche se non inseriamo la metodologia del mentoring.

Si fa presto a dire mentor

Nella maggior parte dei programmi di mentoring che conosco, gli individui scelti per fare i mentor non hanno ricevuto una preparazione sufficiente a svolgere questo ruolo. Il rischio che vedo è che si lasci al loro istinto l’interpretazione di questo ruolo che viene interpretato in base all’intuizione che ciascuno ha di cosa sia o cosa faccia secondo lui/lei un Mentor.

Per questo, possono quindi mettere in campo tutta una serie di comportamenti che vanno dal dare consigli ai mentee, istruirli, formarli, dare giudizi o linee guida per affrontare situazioni. Comportamenti che poco hanno a che fare con una relazione orientata all’autonomia, allo sviluppo, alla riflessività, che è la relazione di mentoring.

Il mentor è un ruolo che richiede almeno le competenze di un coach oltre alle capacità di come mettere a disposizione la propria esperienza e la propria saggezza in una conversazione generativa e in una relazione intersoggettiva, orientata all’autonomia dell’altro.

Propongo allora di mettere un po’ sullo sfondo i concetti di mentoring e mentor se si ritiene di non avere il tempo e il budget per formare i mentor. L’idea che in una decina di ore di formazione si formino le competenze di un mentor è un pensiero magico e surreale. Vi fareste affiancare da un coach che si è formato in una decina di ore?

Fare il mentor significa imparare un nuovo ruolo che richiede impegno per acquisire nuove competenze. Non ci si improvvisa.

La mia proposta è quella di evitare etichette (mentor, mentee) che non sono ben chiare a chi le interpreta e rischiano di creare una relazione stereotipata sulla base di categorie che le persone hanno in mente e non sono funzionali alla relazione.

Alle persone che partecipano al programma, propongo di offrire dei temi di riflessione rilevanti per l’organizzazione e per gli individui, lasciando la possibilità di farne emergere liberamente degli altri durante il percorso. Mettere in coppia una persona senior e una junior con questi obiettivi permetterà di far nascere relazioni generative e di sviluppo.

Quando chiamare queste iniziative “programmi di mentoring”?

Usando le parole per il significato che hanno, chiamerei programmi di Mentoring quelli in cui ci sono degli individui che imparano a svolgere il ruolo di Mentor nelle organizzazioni.

I Mentor sono esperti di relazioni di sviluppo, sapendo diffondere una nuova cultura o potenziare una cultura esistente. Sono motori dell’auto-sviluppo organizzativo. Hanno competenze e una saggezza che, se imparano davvero a far diffondere e fare emergere nell’organizzazione, permettono all’organizzazione di passare ad un livello superiore di realizzazione.

I programmi di mentoring sono degli interventi strategici

Ad una conferenza ho conosciuto un mentor aziendale. Era un Top Executive all’interno di una  multinazionale. Nella sua azienda, altri 18 colleghi hanno il ruolo di mentor: alcuni dei quali appartengono  al middle management, altri al leadership team. Questa figura aveva 5 anni di esperienza nel mentoring ed era qualificato a livello Senior Practitioner dello European Mentoring and Coaching Council. Ha ricevuto 250 ore di formazione in 3 anni, ha erogato più di 300 ore di mentoring in 5 anni. Riceve sia supervisione individuale che supervisione di gruppo con altri colleghi – Mentor .

Nell’azienda il programma di Mentoring è un processo di sviluppo organizzativo e di passaggio generazionale consolidato. Il ruolo del mentor è riconosciuto ufficialmente in azienda. 

Durante il nostro incontro, mi ha raccontato che questo ruolo ha contribuito a renderlo un leader efficace, capace di far emergere la coesione e la motivazione dell’organizzazione.

Lo European Mentoring & Coaching Council prevede 4 livelli di qualifica dei mentor di cui il Senior Practioner è il livello 3.

Propongo di chiamare programmi di mentoring quelli in cui i mentor iniziano a ricevere almeno il livello 1 di EMCC, chiamato Foundation e che corrisponde a 20 ore di formazione, 4 ore di supervisione e 50 ore di pratica.

Gli altri programmi, quelli che ho chiamato programmi “di sviluppo dell’infrastruttura relazionale e della riflessività” dell’organizzazione, hanno una loro onorevole ragion d’essere e utilità. Possiamo chiamarli come vogliamo, ma faremmo confusione se li chiamassimo “programmi di Mentoring”. Sono due strumenti diversi con scopi diversi.

Poi questi programmi possono evolvere in programmi di Mentoring in cui i Mentor vengono opportunamente formati ai vari livelli di qualifica e iniziano davvero a fare i Mentor.

Questa è la mia riflessione e la mia proposta. Qual è il vostro pensiero su questo argomento? Rimango a disposizione per i vostri input.

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