Essere (non fare) il manager

Essere i migliori o essere migliori? Come le virtù possono guidare un manager ad avere un impatto positivo sulla propria organizzazione.

Essere (non fare) il manager

Questo articolo prende ispirazione dal libro “La forza di essere migliori” di Vito Mancuso, che ci porta a riflettere sull’urgenza di investire nella nostra crescita attraverso la pratica della consapevolezza e della volontà, portando i nostri sforzi al nutrimento del nostro essere, prima di impegnarci all’azione.

L’autore dà una chiave di lettura universale di vita attingendo alle antiche sapienze, che ho provato a collegare in questo testo con l’ambito aziendale, nella speranza di fornire stimoli di sviluppo manageriale in una prospettiva un po’ diversa.

Comportamenti manageriali o virtù?

Si parla spesso di comportamenti manageriali da praticare in modo efficace al lavoro, in un’ottica sicuramente utile dal punto di vista del fare, della loro adeguatezza rispetto agli obiettivi organizzativi e di ruolo da raggiungere.

Mancuso, nel suo libro, sposta la riflessione dal piano dell’agire a quello della virtù, un termine ereditato dalla tradizione filosofica greca, che richiama al come dobbiamo essere se vogliamo agire nel migliore dei modi.

La virtù ha un duplice significato: è la forza che consente di mettere in atto un determinato comportamento, ma è anche una particolare qualità che permette all’azione di essere equilibrata e armonica.

Il filosofo Meng-Tzu spiega bene questo doppio significato di virtù: “Nel tirar d’arco a cento passi di distanza, raggiungere il bersaglio dipende dalla forza, ma far centro non dipende solo dalla forza”. Queste parole ci fanno comprendere bene la necessaria armonia tra forza ed equilibrio, cioè tra la potenza, l’energia, la vitalità e la ponderazione, l’equilibrio, la riflessione.


Essere migliori o essere i migliori?

Praticare la virtù mette in luce la differenza tra essere i migliori oppure essere semplicemente migliori. È una differenza determinante anche se in ballo c’è solo una “i”. 

Nel primo caso ci poniamo gli obiettivi nel tentativo di diventare meglio degli altri, di perseguire il successo come supremazia a discapito della sconfitta di qualcuno, facendo entrare in gioco la mente che paragona (io meglio o peggio degli altri). In questo modo, il potere e la volontà di primeggiare spingono il pensiero del “prima io e poi gli altri”. 

Succede così che spesso in azienda vengano ricoperti ruoli apicali e di leadership da persone a cui viene riconosciuta la capacità di essere i migliori perché in grado di essere superiori e primeggiare sugli altri, senza tenere conto della loro attitudine a creare un ambiente migliore per loro e intorno a loro.

Il manager virtuoso cerca invece di essere semplicemente migliore: quello che conta non è determinare se stessi in funzione degli altri (in tal caso l’identità deriverebbe dal gruppo su cui si ha potere o su cui si desidera primeggiare), ma di impegnarsi a diventare migliori, nel rispetto della propria autenticità e del potenziale disponibile.

Mancuso spiega nel suo libro che mettere prima l’essere rispetto al fare permette alle azioni di raggiungere lo stato di armonia relazionale denominato “bene”. 

Il primo obiettivo da porsi consiste nel lavorare sulla consapevolezza di sé per diventare veramente ciò che si è e non l’immagine che si vuole dare agli altri, in funzione di obiettivi da traguardare.

Nella pratica vuol dire essere gentili con se stessi nel riconoscere i propri limiti, sviluppare relazioni senza produrre dipendenza, imparare a godere la strada verso gli obiettivi, apprezzare il qui e ora, saper esprimere il proprio ego senza diventare narcisisti e quindi troppo egoisti, sostituire la “mente che paragona” con la “mente che valorizza” se stessa e gli altri.

Ma come si fa a essere migliori in questo modo?

Vito Mancuso, per rispondere a questa domanda, invita a praticare le virtù, definendole come il più sicuro orientamento della libertà per vivere bene. È grazie alla virtù che teniamo pulita la nostra interiorità, intesa come energia libera dentro di noi, un’energia da armonizzare nelle relazioni con gli altri per il bene comune, privilegiando per esempio la bontà sulla malvagità, la sincerità sulla menzogna, l’onestà sulla disonestà, l’altruismo sull’egoismo. In fin dei conti chi non è giusto verso se stesso non può essere giusto verso gli altri.


Le quattro virtù da esprimere nella vita come nel lavoro

Sono quattro le virtù cardinali da coltivare per vivere una vita sana e un’esperienza lavorativa virtuosa, in modo da mettere in equilibrio il desiderio di raggiungere gli obiettivi con il benessere nostro e degli altri. Sono la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.

La prudenza non è da intendersi, come nel linguaggio moderno, alla stregua della cautela. Nella sua etimologia greca (phrònesis) la parola richiama il significato di saggezza, intesa come la capacità di discernere, di distinguere. La persona saggia conosce il bene, lo vuole attuare e sa come farlo. 

È una virtù che riguarda il modo di pensare, di affrontare le situazioni, perché è un esercizio saggio dell’intelligenza. Cartesio in proposito diceva: “non basta essere ben forniti di intelligenza, quel che più conta è indirizzarla al bene”.

Nell’esercizio del ruolo manageriale, essere saggi vuol dire valutare il proprio impatto sugli altri prima di agire, considerare il contesto prima di compiere un determinato comportamento, agire con una visione di lungo periodo anziché con lo sguardo rivolto al breve termine.

La giustizia (dal greco dikaiosýne) è la virtù di essere giusti, onesti, integri ed equi.

Anche per questa virtù il lavoro da fare è su se stessi: il primo passo è prendere consapevolezza della propria fallibilità e quindi della propria tendenza ad inciampare nell’ingiustizia. Solo riconoscendo i nostri limiti possiamo lavorare al passo successivo che è quello di imparare a prendere distanza dal nostro modo di vedere le cose, mettere in dubbio le abitudini mentali.

Il manager saggio non ha necessità di vincere, perché non ha la preoccupazione di far prevalere la propria ragione su quello degli altri. È esattamente attraverso questa ricerca di equilibrio tra la verità propria e quella degli altri che si può lavorare sull’essere giusti.

La fortezza, detta andreìa in greco, può essere vista in senso passivo e attivo. Nel primo senso è resistenza, o resilienza, nel secondo è coraggio.

La posta in gioco è la forza interiore che, se viene messa al servizio dell’ordine e della crescita, si armonizza bene con le altre virtù cardinali.

Esprimere forza non significa necessariamente dominio sugli altri, ma significa volontà di riuscire, di fare bene, di raggiungere l’obiettivo. 

Essere forti vuol dire anche saper perdere, essere capaci di ospitare la sconfitta senza perdersi d’animo. Non è, quindi, solo agire, ma in certe situazioni è riuscire a stare fermi, attendere, pazientare, abbandonarsi a quello che c’è senza cercare di ostacolarlo. Il manager forte incanala l’energia per costruire, impegnandosi a tessere legami, anche se questo vuol dire, a volte, avere il coraggio di distruggere, ma sempre con il fine di generare nuovi sistemi, legami e scenari migliori dei precedenti.

La temperanza (in greco sophorosýne) assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. È la capacità di moderarsi, di avere senso della misura. Il suo opposto è la prepotenza.

La persona temperante sa cogliere quando è il momento di frenare e quando invece è il momento di accelerare. Essere temperanti significa avere tatto, sia verso gli altri sia verso se stessi. Per esempio essere morbidi verso chi non ce la fa, oppure lasciare andare il giudizio a volte troppo severo verso noi stessi.

Il manager temperante mette l’empatia al servizio dei propri obiettivi: è flessibile al mutare delle circostanze e limita al massimo l’esercizio del biasimo.

Il manager virtuoso

In conclusione, il manager del fare, se non coltiva la coscienza di sé, pone inevitabilmente se stesso prima di tutto, non si mette mai in dubbio ed è disposto a raggiungere i propri obiettivi a discapito del bene comune.

Il manager virtuoso, invece, antepone il lavoro su di sé al “fare”, riflettendo prima di agire e ripensando alle sue azioni anche a posteriori, nell’intento di mettere al primo posto l’agire etico e il proprio io al pari degli altri.

L’augurio è che le 4 virtù cardinali possano essere di ispirazione per tutti noi, un invito ad aprire loro la porta per cercare di essere migliori, così da riconoscere la nostra autenticità e avere il coraggio di smussare quegli spigoli che ci allontanano dai desideri più veri e dai nostri bisogni più profondi.

“La vita non è una montagna da scalare, un treno da non perdere, un obiettivo da centrare, ma è una piccola stanza da arredare con cura.
Non è una cima da raggiungere a tutti i costi. È la scelta di un buon posto in cui fermarsi” (Matteo Bussola)

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