C’è un binomio da cui le aziende che vogliono farsi notare nel contesto attuale non possono prescindere: la gestione dell’immensa mole di informazioni che i collaboratori ricevono quotidianamente e il bisogno costante di innovazione. La combinazione di questi due elementi crea delle sfide manageriali nuove che hanno molto a che fare con la creatività: l’attivazione di risorse creative, infatti, può rivelarsi utile per l’organizzazione nel capire come canalizzare, organizzare e socializzare la conoscenza e, di conseguenza, trasformarla in innovazione efficace. Ma avere a che fare con knowledge worker implica un cambio di mindset per i Manager, che si trovano a dover gestire risorse con competenze che il manager stesso potrebbe non avere e che reclamano un maggior livello di indipendenza.
Chi gestisce i cosiddetti knowledge worker, persone che portano il loro sapere all’interno delle organizzazioni, oggi, è posto davanti a una sfida importante che riguarda la diversity: persone con lo stesso background, che fanno lo stesso lavoro, con gli stessi collaboratori e seguendo le stesse procedure possono avere, in realtà, cervelli che lavorano in modo molto diverso, ovvero, possono essere diverse le modalità in cui si immagazzinano le informazioni, si ricordano, si rielaborano.
In termini più concreti, questo significa che ognuno, nelle attività lavorative, per quanto simile alle persone che ha intorno, può sviluppare dei metodi specifici e personali per portare avanti i suoi task e organizzare la giornata in modo da renderla efficiente.
Una procedura standard, quindi, lo stesso metodo, potrebbe non andare bene per tutti i collaboratori di un’organizzazione e, anzi, in alcuni casi potrebbe rivelarsi controproducente: al contrario, invece, lasciare libertà di scelta ed espressione anche dal punto di vista organizzativo alle persone può contribuire a generare un ambiente più produttivo e stimolante.
E se il cervello fosse una libreria?
Per capire meglio che cosa significa libertà di organizzazione, proviamo a usare un’immagine: quella di una libreria. Quando i libri che la libreria contiene sono tanti, diventa necessario organizzarli in modo da trovare quelli che servono con facilità, ma anche, allo stesso tempo, da rendere la zona della libreria stessa bella e accogliente. Efficacia ed estetica, quindi.
Ma qual è il modo giusto? La risposta possibile è una sola: dipende. E la differenza la fa il mindset della persona che organizza. Le modalità di organizzazione più diffuse, per quanto riguarda le librerie, sono:
- per colore della costa della copertina: per chi ha una memoria maggiormente visiva e ha una predilezione per l’estetica e l’impatto cromatico
- per casa editrice o genere: per chi è più propenso a dividere in cluster e categorizzare in macrocategorie
- in ordine alfabetico per autore: per chi tende tende a prediligere un ordine più razionale e, per certi versi, insindacabile, da catalogo
- in ordine cronologico: per chi mette la dimensione temporale in posizione di rilievo rispetto a quella estetica
- per altezza: per chi è preciso e preferisce che l’impatto visivo restituisca un ordine armonico
Si tratta di tipologie di organizzazione che non hanno praticamente niente in comune, se non il fatto che si tratta di libri, eppure tutte raggiungono i due già citati obiettivi: efficacia ed estetica. Non ce n’è uno migliore o peggiore, a fare la differenza è solo ciò che per la persona che organizza i libri funziona meglio. Per sé, non per tutti.
Se infatti qualcuno venisse a casa nostra e si imponesse di spostare i libri secondo il suo metodo, probabilmente non troveremmo più niente di ciò che ci serve e anche il colpo d’occhio estetico ci darebbe fastidio, in quanto non ci rappresenta.
Perché non applicare lo stesso ragionamento anche sul posto di lavoro?
Immaginiamo che i libri corrispondano alla conoscenza che ciascuna persona ha e il modo in cui li organizza al bisogno di innovazione a cui le aziende devono rispondere: come si può lasciare liberi i singoli di organizzare la propria libreria nel modo a loro più congeniale?
Questa domanda racchiude in sé la sfida che i Manager che collaborano con knowledge worker si trovano ad affrontare, perché devono riuscire a far funzionare un’organizzazione in cui le persone lavorano ognuna a proprio modo, ma devono collaborare; in cui ci sono spazi che permettono una maggiore personalizzazione e altri che sono più codificati; in cui la conoscenza deve passare dal singolo al team.
E il modo per rispondere a queste esigenze è l’allenamento di una combinazione di due skill: dialogo e creatività.
Dialogo: rendere la conoscenza da tacita a esplicita
Da Coach, nei nostri progetti, abbiamo spesso potuto osservare come problemi organizzativi che sembrano insormontabili sono risolvibili con un’azione semplice e complessa allo stesso tempo: parlarsi. Anche in questo caso, dialogo e organizzazione efficace sono due aspetti molto collegati: investire del tempo per riflettere insieme al team su come sia meglio organizzarsi e creare procedure solide ma flessibili e adatte alle necessità di tutti significa creare un momento di valore che avrà un impatto positivo sia sulle performance che sulla crescita dei singoli.
Gli studiosi giapponesi Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi, nel loro libro The Knowledge Creating Company, del 1995, che mira a mettere in evidenza le dinamiche sociali che stanno alla base della creazione di conoscenza nelle organizzazioni, teorizzano proprio come sia la riflessione attiva sull’esperienza, un elemento fondamentale anche nel Coaching, a trasformare la conoscenza tacita in esplicita. Gli autori dimostrano come questo passaggio avvenga non attraverso prassi gestionali codificate, ma attraverso forme di interazione sociale che consentono di attuare specifiche forme comunicative.
Il dialogo, quindi, permette di identificare le aree su cui è necessario intervenire e di stabilire gli spazi entro i quali le persone si possono muovere liberamente, ovvero entro i quali ognuno è libero di mettere in pratica la sua creatività.
Creatività: tutti ce l’hanno, pochi la usano
Culturalmente siamo abituati a dividere il mondo in due cluster di persone: creativi e non creativi, una divisione che diventa concreta soprattutto nelle aziende. In realtà non è così. Come affermano David e Tom Kelley, autori del libro Creative Confidence: Unleashing the Creative Potential Within Us All:
Si è scoperto invece che la creatività non è un dono raro di cui godono pochi fortunati, ma una componente fondamentale del pensiero e del comportamento umano.
La creatività quindi non è un superpotere a disposizione esclusivamente di persone dotate, ma una capacità che riguarda tutti, bisogna solo avere il coraggio di tenerla allenata. La divisione più corretta, infatti, sarebbe tra persone che temono la loro creatività e quelle che non la temono. Il timore che le persone hanno di esprimere il proprio lato creativo deriva da una concezione sociale che già dalle scuole impone ai ragazzi di sopprimerlo in favore di quello più analitico o logico. Col passare del tempo, questa repressione indotta silenziosamente produce negli adulti un vero e proprio timore nell’esprimere creatività, perché hanno paura che questo possa esporli al giudizio altrui e di non essere all’altezza delle proprie idee.
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Il valore di dialogo e creatività nelle aziende
Reprimere i nostri istinti creativi è una strategia spiacevole e inutile, oltre a un’abitudine che può arrivare a danneggiarci senza che ce ne rendiamo conto. La creatività inutilizzata si trasforma in sofferenza, rabbia, giudizio, dolore e vergogna: non riconoscere o non esprimere il nostro lato creativo può generare depressione, insicurezza, stress e ansia.
Seth Godin, nel suo libro La pratica. L’attività creativa è una scelta quotidiana, spiega molto bene quali sono i rischi del portare avanti un ambiente lavorativo in cui la creatività viene castrata in maniera sistemica, ovvero causare malessere, insoddisfazione e frustrazione. Tutti sentimenti che possono essere contrastati attraverso una cultura aziendale improntata sul dialogo.
Al contrario infatti, offrire un contesto in cui le persone si sentono libere di parlare, di esprimere la propria opinione e di sfruttare la creatività nell’organizzare e nello svolgere i propri task è valorizzata e incentivata, porta a una serie di vantaggi, sia per il singolo che per tutta l’organizzazione:
- stimola il pensiero critico e il problem solving: permette alle persone di raccontare il proprio vissuto, di valutare le situazioni e di proporre soluzioni che si discostano dal “si è sempre fatto così”, facilitando l’apprendimento e la possibilità di cogliere nuove opportunità.
- stimola il lavoro in team: l’idea di una persona può migliorare con la condivisione e le fasi di brainstorming. Proprio perché non tutte le persone ragionano allo stesso modo, dialogare e ragionare insieme può aiutare a cogliere punti di vista e angolazioni diverse che una persona da sola non avrebbe considerato, portando fuori da situazioni di stallo, migliorando l’idea stessa e rafforzando i legami tra collaboratori.
- predispone all’empatia e all’ascolto: esprimere le proprie idee e prendere in considerazione quelle altrui aiuta il processo di immedesimazione nell’altro, mettendo le persone nella posizione di comprendere meglio le emozioni e le necessità.
- aumenta la produttività: la spinta a condividere e trovare nuove soluzioni, il coinvolgimento maggiore dato dal dialogo, le connessioni più forti con i colleghi, sono tutti elementi che danno maggiore slancio alle performance di chi sta lavorando.
- diminuisce ansia e stress e aumenta la sicurezza in sé: quando viene meno il timore del giudizio altrui e si riscopre la libertà di esprimersi ci si sente meno prigionieri del proprio lavoro e questo ha un effetto benefico anche sull’umore delle persone.
Per i knowledge worker così come per le organizzazioni, quindi, essere creativi è una scelta, ma anche un’opportunità. Creare un ambiente in cui dialogo e spirito creativo vengono costantemente stimolati è come avere a disposizione tante librerie: ognuna con i suoi testi di riferimento, ognuna organizzata nel modo più efficace, ma tutte in grado di dare il proprio apporto, libere di contaminarsi con le altre librerie e di portare nell’azienda la competenza e la bellezza che le rendono se stesse.