Sicurezza psicologica: quanto influisce su turnover e retention?

Sicurezza psicologica: quanto influisce su turnover e retention?

Che cosa succede se ci si sente sicuri, dal punto di vista psicologico, sul lavoro? E cosa invece se questa sicurezza non c’è? I dati e gli studi sul tema ci dicono che cambia tanto. La sicurezza, infatti, non è semplicemente un vantaggio, ma un vero e proprio bisogno, e se si parla di sicurezza psicologica può davvero fare la differenza: gli impatti positivi non si limitano al clima aziendale, ma vanno dalla riduzione del turnover, all’aumento dell’attaccamento all’organizzazione e dell’engagement, con un conseguente miglioramento delle performance aziendali. 

Ma che cos’è nello specifico la psychological safety? E come si ottiene?

Il contesto in cui viviamo (e lavoriamo) sta diventando sempre più mutevole e incerto: da un lato questo può essere visto come una spinta all’innovazione, al miglioramento, alla ricerca stimolante di soluzioni sempre diverse, dall’altro, però, va a intaccare qualcosa che, per gli esseri umani, rimane prioritario: la sicurezza.

Nella piramide dei bisogni elaborata dallo psicologo Abraham Maslow riguardo agli elementi che favoriscono la motivazione tra le persone, infatti, l’elemento della sicurezza occupa il secondo livello della piramide, subito sopra quello relativo alle esigenze fisiologiche. All’interno del concetto di “sicurezza”, oggi sta acquisendo sempre più rilievo l’aspetto che va ben oltre l’incolumità fisica o economica, ma riguarda la sicurezza psicologica. Il fatto che questo stia diventando sempre più importante per le persone fa sì che, di conseguenza, anche le organizzazioni traggano vantaggio dal tenerlo in alta considerazione.

Il concetto di sicurezza psicologica è stato codificato per la prima volta nel 1999 dalla dottoressa Amy Edmondson, docente della Harvard Business School, che l’ha definita come quel senso di sicurezza che “sul lavoro si genera quando una persona ha la certezza di non essere punita o umiliata per aver dato voce a idee, domande, preoccupazioni o errori”.

7 motivi per praticare la sicurezza psicologica in azienda

Le ragioni per cui la psychological safety dovrebbe essere prioritaria per le aziende è che non si tratta semplicemente di fare stare bene le persone, ma anche di avere importanti riscontri sul business: lo studio della dott.ssa Edmondson A Safe Harbor: Social Psychological Factors Effecting Boundary Spanning in Work Teams, infatti, dimostra come questa diminuisca i tassi di turnover, aumenti la produttività e migliori la qualità del lavoro. I dati sono confermati anche da un più recente studio, effettuato dalla Boston Consulting Group (Bcg), dal titolo Psychological Safety Levels the Playing Field for Employees: il sondaggio ha coinvolto più di 28000 persone di 16 paesi, tra cui l’Italia, e mette in luce la stretta relazione tra sicurezza psicologica e permanenza in azienda. Infatti, negli ambienti percepiti come psicologicamente sicuri la tendenza alle dimissioni si riduce di 2.7 volte in un anno; al contrario, invece, 6,9% delle persone che lavorano in contesti caratterizzati da un basso livello di sicurezza psicologica dichiara di essere intenzionato a lasciare il lavoro entro 12 mesi. 

A dare un quadro più completo dei benefici è arrivata una ricerca di InsideOut, che ha evidenziato sette vantaggi concreti. Nello specifico:

  1. Diffusione di benessere aziendale, che contribuisce all’aumento della produttività e alla riduzione dello stress
  2. Maggiore coinvolgimento delle persone, perché quando queste si sentono al sicuro è più probabile che percepiscano anche come maggiore l’appartenenza all’azienda e il coinvolgimento nelle attività
  3. Rafforzamento della cultura organizzativa, strettamente connessa alla motivazione
  4. Riduzione del turnover, conseguenza del fatto che quando i talenti si sentono valorizzati hanno meno motivo per andare via
  5. Stimolo alla creatività, che aumenta nei contesti in cui ci si sente al sicuro nel far circolare nuove idee e nel portare iniziative personali
  6. Miglioramento dell’immagine aziendale, agli occhi di clienti, fornitori, investitori e anche talenti
  7. Aumento della produttività, in quanto, come in un circolo virtuoso, tutti gli elementi elencati portano le persone a lavorare al massimo del proprio potenziale con conseguenti incrementi delle performance


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Sicurezza psicologica: quanto influisce su turnover e retention?

Fiducia e diversity: due elementi della sicurezza psicologica da non dimenticare

La sicurezza psicologica, purtroppo, non viene da sé, ma va costruita, e questo può essere un processo lungo e impegnativo soprattutto da parte di chi ricopre i ruoli più alti delle gerarchie, come Manager, Executive e C-level.

Prima di cominciare a chiedersi come la si realizza, però, è importante tenere presente che ci sono due pilastri fondamentali senza i quali la sfida della psychological safety diventa davvero difficile. Parliamo di fiducia e diversity.

La fiducia è alla base di tutte le relazioni funzionanti, incluse quelle che si instaurano all’interno delle aziende. In campo lavorativo, però, possiamo dividere la fiducia in due tipologie:

  • fiducia pratica: quella che si ottiene svolgendo bene il proprio lavoro, rispettando le aspettative dell’azienda riguardo alla presenza, la puntualità e il rispetto delle consegne. A influire in questo caso è il sentire che tutti sono pronti e disposti a lavorare per un obiettivo comune, che le persone sono affidabili e che una buona esecuzione dei compiti sia l’ambizione di tutti.

     

  • fiducia emotiva: agisce a livello più relazionale e ha a che fare con i legami tra partner di lavoro e manager. Questo tipo di fiducia è più difficile da costruire, perché necessita di un passo in più  in quanto va oltre i semplici task che vengono chiesti: se c’è fiducia emotiva questo significa che, agendo insieme, la relazione fa sì che il valore generato dalle persone sia maggiore di quello che si otterrebbe sommando il valore dei singoli individui.

Il secondo aspetto da non tralasciare è la diversity: chi gestisce le persone è meglio che tenga sempre a mente che non tutti reagiscono alla sicurezza psicologica (o alla mancanza di essa) allo stesso modo. Ci sono infatti persone più sensibili e attente a questo tema, come le donne, le persone di colore o LGBTQIA+, con disabilità o provenienti da contesti svantaggiati dal punto di vista economico: per queste categorie muoversi in un contesto lavorativo sicuro diventa ancora più rilevante. I numeri lo dimostrano: in Italia, nei contesti in cui la sicurezza psicologica non viene messa in atto, le persone con disabilità tendono ad abbandonare il posto di lavoro 4,6 volte più frequentemente rispetto ai contesti in cui è invece presente, mentre tra le donne il rischio di abbandono cresce dell’8%. 

La sicurezza psicologica, quindi, non aiuta le performance aziendali solo diminuendo il turnover e attraendo talenti, ma anche favorendo la diversità e l’integrazione, con tutti i benefici che un ambiente più vario e inclusivo comporta.

Creare sicurezza psicologica: come si fa?

Nella costruzione di un ambiente di lavoro sicuro è innegabile che la responsabilità maggiore ricada sui leader o su chi occupa livelli alti delle gerarchie aziendali. In questo, un buon aiuto può arrivare da percorsi di Coaching che possono dare ai leader la possibilità di allenarsi e mettere in pratica competenze comportamentali che favoriscono un clima in cui la sicurezza psicologica viene percepita come molto alta.

L’implementazione di una leadership empatica, in cui viene dato risalto al sentito emotivo dell’altro, la comunicazione avviene in maniera autentica ed accogliente e viene stimolata l’interazione tra esseri umani, costituisce già un buon inizio.

Come dicevamo, la sicurezza psicologica è il punto di arrivo di un percorso, che può essere lungo e impegnativo a livelli diversi a seconda dei contesti, ma in ogni caso, come lo psicologo Timothy R. Clark teorizza nel suo libro The 4 Stages of Psychological Safety, si articola in quattro fasi:

  1. inclusione, che si raggiunge quando tutte le persone coinvolte si sentono accettate nella loro unicità
  2.  disponibilità, a fare domande, apprendere e soprattutto dare e ricevere feedback
  3. contributo, che ognuno dà nell’aggiungere valore alle attività e alle strategie dell’organizzazione
  4. sfida, ovvero la disponibilità a mettere in discussione lo status quo ogni volta che si prospetta un’opportunità di miglioramento.

Per passare dalla fase uno alla quattro è importante portare un cambiamento nei propri team, dimostrando, da leader, un cambio di prospettiva e dei comportamenti che possono favorire un ambiente sano e sicuro. Nello specifico, tra i comportamenti che potrebbero aiutare ci sono:

  • mettersi in prima linea per fare da esempio: spesso ci si chiede che cosa possono fare gli altri, quando la vera domanda è che cosa possiamo fare noi. Fare da esempio significa quindi settare un modo di fare diverso, più aperto e inclusivo, e stimolare gli altri ad adottare lo stesso.

     

  • guardare ai collaboratori come alleati, non avversari: soprattutto nei contesti molto grandi e gerarchici, è facile che si sviluppino sensi di competizione tra persone che lavorano insieme. Riuscire a mettere da parte il proprio ego e lavorare sull’obiettivo comune fa sentire tutti più sicuri di dire la propria opinione, ottenendo così risultati maggiori e condivisi.

     

  • parlare da esseri umani a esseri umani: la comunicazione, in questo campo, è fondamentale. Avere un approccio umano (la leadership empatica di cui si parlava prima) e riuscire a trasmetterlo a raggiera a tutti i collaboratori aiuta le relazioni e, quindi, a far sentire tutti parte di una rete più sicura.

  • dare e ricevere feedback: nel Coaching si dice sempre che il feedback è un dono, ma non è facile né da dare né da ricevere. Conoscere il modo più efficace per dare feedback agli altri ed essere disposti ad accettare i consigli che arrivano permette a tutti di essere più aperti, autentici e rispettosi delle persone che hanno intorno.
Sicurezza psicologica: quanto influisce su turnover e retention?