Sul posto di lavoro pensiamo di valere di più nascondendo chi siamo?

Sul posto di lavoro pensiamo di valere di più se nascondiamo chi siamo?

Stando a quanto dimostrano gli studi, la maggioranza delle persone sul posto di lavoro si sforza di essere qualcun altro, o almeno di nascondere con decisione una parte rilevante di sé. Un atteggiamento che sotto un certo punto di vista può sembrare naturale (tutti mostriamo lati diversi di noi in base alle persone con le quali siamo in relazione e al contesto in cui ci troviamo), ma che in realtà rischia di far nascere una scissione, rendendoci spaccati tra chi siamo e chi mostriamo, con ripercussioni anche gravi sull’engagement, sulla promozione della diversity e sui risultati di un’organizzazione. Ma ci sono degli atteggiamenti che si possono implementare per riuscire a rompere il confine del non detto e far percepire alle persone che si trovano in un luogo in cui possono sentirsi liberi di esprimere se stessi.

La diversity è ricchezza: è una frase che sentiamo ripetere ormai in ogni contesto e di cui tutti siamo convinti. O almeno, così sembrerebbe. Spesso, però, quando durante le sedute di Coaching ho la possibilità di guardare più da vicino qual è l’atteggiamento delle persone riguardo alla diversità che ognuno può portare all’interno di un contesto lavorativo, è palpabile che ci sia qualcosa che ne sta boicottando la crescita, tendendo ad appiattire tutto su un conformismo che non fa altro che lasciare fisso lo status quo.

E questo qualcosa, che ostinatamente ogni giorno rema contro, siamo noi stessi.

Secondo uno studio di Mindwork, infatti, il 54% delle persone intervistate non considera l’ambiente di lavoro un luogo sicuro per poter esprimere liberamente le proprie idee.

Questo significa che più di una persona su due, nel contesto lavorativo, nasconde agli altri una parte importante di sé.

Una persona su 2 nel contesto lavorativo nasconde agli altri una parte di sé.

Che cosa nascondiamo e perché

Nel 1951, lo psicologo polacco Solomon Asch fece un esperimento che dimostrò come, quando siamo all’interno di un gruppo, siamo disposti a cambiare la nostra opinione pur di conformarci, anche se il dato su cui ci stiamo esprimendo è oggettivo: il 75% circa dei partecipanti almeno una volta si è adeguato al gruppo e ha risposto, consapevolmente, in modo sbagliato per non contraddire la maggioranza; il 5% ha sbagliato sempre pur di adeguarsi al gruppo; mentre solo il 25% è restato fedele a ciò che riteneva giusto.

Nascondere ciò che pensiamo pur di non risultare “la voce fuori dal coro”, quindi, è un atteggiamento perfettamente umano e naturale: ognuno di noi, anche nelle varie situazioni personali, sulla base delle persone con cui è, tende a mostrare di più un lato di sé e mascherarne un altro. Se da una parte, quindi, come afferma David Clutterbuck, la capacità di mentire che abbiamo sviluppato ci permette di lavorare e collaborare anche con numeri consistenti di persone, dall’altra la domanda che dobbiamo porci, però, è questa: lo sto facendo per mia libera scelta o perché il contesto lavorativo in cui mi trovo mi fa sentire in difetto se mostro il lato più vero di me?

Secondo un sondaggio presentato nella quarta puntata del podcast Troppo Poco, dedicato alla salute mentale sul posto di lavoro, le caratteristiche che più spesso vengono nascoste sono:

  • l’orientamento sessuale
  • il proprio malessere psicologico (depressione e/o ansia)
  • i propri valori politici, sociali e ambientali

Ma oltre a queste ci sono anche elementi più “leggeri” come il modo di vestirsi, i propri hobby, o anche solo la squadra per cui si tifa. E lo facciamo proprio perché non vogliamo perdere l’opportunità di risultare conformi.

Il meccanismo che c’è dietro questa tendenza è strettamente legato alla logica delle performance: in un contesto in cui è importante fare la scalata verso i vertici, paradossalmente oscurarci ci rende più visibili e soprattutto ci fa apparire credibili, professionali, invulnerabili. Avere il coraggio di accendere una luce propria può dimostrarsi invece un passo falso che ci fa perdere parecchi gradini, allontanandoci dal vertice.

Si tratta di una dinamica in cui si vedono attuate le prime due tra le Five Dysfunction of a Team identificate da Patrick Lencioni, autore americano di libri sul Team Management:

  1. la mancanza di fiducia: una superficiale conoscenza delle altre persone con cui si lavora fa sì che non si entri mai in un rapporto autentico, favorendo quindi la chiusura di ognuno all’interno del proprio fortino per preservare dal potenziale giudizio altrui le proprie debolezze.
  2. la paura del conflitto: evitare di affrontare temi scomodi, come possono essere i pareri personali, crea un’armonia apparente, un territorio comune ristretto ma pacifico in cui è molto facile fingere di essere chi non si è. Ma è un’illusione fragile, destinata, nel tempo, ad esplodere.

Ma perché dovremmo fare lo sforzo di essere noi stessi?

Come dicevamo prima, è naturale e umano mostrare alcune parti di sé con certe persone e altre con altre. Quello che fa la differenza è quanto, pur nell’esternare lati diversi della propria personalità, si resta coerenti con se stessi.

La coerenza è importante sì a livello etico, più alto, ma anche nelle situazioni quotidiane, in cui diventa rilevante perché si collega con la soddisfazione e con l’idea che si ha di sé: in uno degli studi tenuti dalla dottoressa Maferima Touré-Tillery, docente di marketing alla Kellogg School negli Stati Uniti, e dalla dottoressa Allyson Light, dell’Università di Philadelphia, Light infatti afferma: “Se tendo a pensare a me stesso allo stesso modo in un ruolo e nell’altro, se faccio qualcosa di cui mi pento, è probabile che mi sentirò male con me stesso in tutte le mie identità”. Quindi le persone che rimangono fedeli a loro stesse in tutti i ruoli che ricoprono nel corso della giornata (incluso quello lavorativo) sono più propense a fare scelte efficaci e a mantenere un comportamento corretto anche nelle situazioni di difficoltà, oltre che a costruire relazioni più sincere e a provare un maggior benessere dentro e fuori il posto di lavoro.

Il vantaggio principale è che le persone che stanno bene riescono a lavorare sui loro punti di forza e generano un valore maggiore. A questo proposito c’è una ricerca di Glassdoor che dimostra come ci sia una stretta correlazione tra felicità e produttività e di quanto il livello di felicità cresca in maniera direttamente proporzionale alla positività delle relazioni costruite.

E c’è anche un aspetto economico da mettere in evidenza: riuscire ad essere se stessi fa sì che si crei un ambiente di lavoro in cui autenticità, trasparenza, coinvolgimento e diversità siano i pilastri fondamentali, aumentando l’engagement dei dipendenti, e diversi studi dimostrano quanto questo abbia delle ripercussioni positive anche sul fatturato delle aziende. Un rapporto di TechJury dimostra infatti che le aziende con un coinvolgimento più alto sono più redditizie del 21%, questo perché, secondo uno studio della Workplace Research Foundation, i dipendenti coinvolti hanno il 38% in più di possibilità di avere una produttività superiore alla media.

Su cosa i Manager possono lavorare per creare un ambiente in cui far sentire i collaboratori più al sicuro

Negare una parte di sé, più o meno importante, se inizialmente può sembrare tollerabile, in realtà alla lunga rischia di far sentire le persone spezzate, scisse e costrette in un personaggio che non le rappresenta a pieno.

È un aspetto che emerge spesso durante le sessioni di Coaching: se paragoniamo la persona con cui parliamo durante gli incontri one to one con quella di closing, a cui partecipano anche i livelli più alti della gerarchia, si fa quasi fatica a credere che si tratti della stessa persona.
Questo accade perché spesso chi lavora in posizioni manageriali, anche inconsapevolmente, assume atteggiamenti che rischiano di essere castranti per i collaboratori. Essere in una posizione di potere però dà anche la possibilità di fare il contrario: mettere in pratica e diffondere comportamenti finalizzati a far sentire ai collaboratori di essere in un contesto sicuro, sia per promuovere la diversity che per tutelare la loro salute mentale.
Riuscire a creare un ambiente in cui il sentimento diffuso sia quello dell’adeguatezza e della libertà di espressione è un processo lungo, che rischia di creare disagio e che richiede molto coraggio. Ma è anche tanto liberatorio.

In questo senso le sessioni di Coaching possono essere molto utili per lavorare sull’aspetto della sicurezza di sé: è un percorso in cui il Coachee scopre progressivamente se stesso e impara ad affermarsi, anche nelle situazioni in cui ha la tendenza a sentirsi a disagio.
Ovviamente un lavoro di questo tipo fatto su una figura che ha un ruolo più alto fa sì che si diffondano poi tra i collaboratori una cultura e un ambiente in cui si incentiva lo sviluppo di alcune capacità:

  • autoconsapevolezza:non c’è dubbio che la realtà, l’ambiente in cui ci muoviamo e l’atteggiamento altrui abbiano su di noi un alto potere di influenza e molto spesso sforzarsi di cambiare i giudizi degli altri può essere una causa persa. Quello che si può fare però è modificare il proprio modo di interpretare e reagire agli stimoli che arrivano: supportare Manager e collaboratori nel rafforzare la percezione di se stessi, di quali sono i propri punti di forza e di cosa si può dare al mondo rende più difficile che questi subiscano il pensiero degli altri in modo talmente impattante da portarli a cambiare idea.
  • linguaggio: le parole che usiamo quando parliamo modellano il nostro mondo. Ma fanno anche di più: il linguaggio infatti rinforza e modifica connessioni neuronali che vanno a consolidare determinati pattern celebrali, e questo vale in senso negativo, ma anche (e soprattutto) in senso positivo. Spronare le persone a trovare le parole giuste per definirsi e usarle con gli altri, dare l’esempio sdoganando termini considerati off limits, ha un potere fortissimo sulla rottura del pregiudizio e sul cambiamento culturale da portare in un dato contesto.
  • rottura del silenzio: nascondere un determinato lato di sé fa sentire soli, perché, evitando il discorso, sembra che nessun altro viva la stessa situazione. Avere il coraggio di scoperchiare il vaso, invece, soprattutto quando si è in una posizione più alta, può creare una rottura positiva: una legittimazione per chi a sua volta si stava nascondendo a parlare, a confrontarsi e trovare insieme una soluzione a un disagio. Questo può essere utile anche in termini di leadership: se un Manager prende una posizione in questo senso, può vedere rafforzata la sua immagine agli occhi dei collaboratori, perché diventa un punto di riferimento, una persona da cui andare a parlare, per chi sta vivendo un disagio.
  • intersezionalità: siamo tutti formati da tanti aspetti della nostra personalità, eppure il nostro cervello ci spinge a clusterizzare, a ragionare per silos, anche quando si parla di diversità. Riuscire a creare una cultura in cui la diversità viene percepita come intersezionale dà la possibilità di creare conversazioni più profonde e multisfaccettate (proprio come siamo noi) e di realizzare nuove connessioni prendendo in considerazione punti di vista più completi.

Trasformare il proprio contesto lavorativo in un ambiente che sia davvero inclusivo è ormai un obiettivo comune a tutti i tipi di organizzazioni, ma per raggiungerlo bisogna che a partire dai livelli più alti ci si impegni per far cadere il velo tangibile che impedisce alla diversity di realizzarsi davvero, portando alla luce una ricchezza che al momento risulta presente ma inesplorata. Ognuno è diverso a modo suo, nel suo percepito e nella sua quotidianità: i percorsi di Coaching sono un modo per riuscire a dare voce a tutte queste differenze, anche quelle che possono sembrare poco pesanti da nascondere, spianerà la strada per allargare le vedute e rendere la diversity un concetto concreto e attuato in azienda, non solo una parola.
Per capire se l’ambiente in cui ci si trova è percepito come sicuro, il primo passo è che siano i Manager stessi a fare una riflessione su di sé: che cosa sono restio a mostrare sul mio posto di lavoro?

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