La trasformazione digitale è trasformazione umana: le skill da sviluppare in un mondo che non smette di cambiare

La trasformazione digitale è trasformazione umana

Quando si parla di trasformazione digitale spesso si pensa ad un contesto freddo, depersonalizzato e privo di empatia, ma i cambiamenti che stiamo vivendo testimoniano invece il contrario: al centro della digitalizzazione c’è l’essere umano. Lo sviluppo di soft skill più calde ed empatiche, quindi, pone le basi di una relazione virtuosa con il mondo del lavoro e con tutte le evoluzioni che arriveranno nei prossimi anni. 

Negli ultimi tre anni abbiamo visto il mondo cambiare, e probabilmente uno dei settori su cui gli effetti “trasformativi” della pandemia si sono più fatti sentire è proprio quello del lavoro: già da prima del 2020 la trasformazione digitale era un trend topic e, in maniera improvvisa e necessaria, abbiamo visto con i nostri occhi e attraverso gli schermi le sue potenzialità infinite. Ci siamo abituati in fretta a possibilità a cui oggi si farebbe poco volentieri a meno, come lo smartworking, l’uso di piattaforme e le video call, ma ora che ci siamo adeguati, tutto questo trambusto si fermerà? La risposta, semplice tanto quanto a tratti spaventosa, è una sola: no. Il modo di lavorare continuerà ad evolversi sulla base di esigenze sempre nuove e sempre diverse, obbligandoci a un confronto costante con un cambiamento da cui è molto difficile (oltre che sconsigliabile) scappare. Innanzitutto perché la pandemia, oltre a fare da acceleratore di alcuni processi, ha anche cambiato il mindset delle persone, rendendole più inclini al cambiamento: il report Assochange 2021, infatti, dimostra un aumento dell’apertura dei collaboratori in questa direzione, tanto che quasi un lavoratore su due (49%) si dimostra favorevole al cambiamento (nel 2019 era il 40%); il 10% delle persone si dichiara ingaggiata, propositiva e proattiva nelle iniziative di cambiamento (7% nel 2019); nel complesso, il 59% affronta il cambiamento con spirito costruttivo (43% nel 2019). Al contrario, scende al 39% il numero di chi partecipa ai progetti solo se “attivato” (47% nel 2019).
Infografica attitudine al cambiamento 2019 vs 2021

In pratica, un lavoratore su 3 oggi comprende che il cambiamento è urgente, improcrastinabile e necessario per rendere la propria azienda competitiva sul mercato. 

Il senso dell’evoluzione, quindi, è compreso, voluto e supportato dalle persone per il benessere delle persone. Questo dimostra che quando si parla di trasformazione digitale non bisogna cadere nell’errore di immaginare un mondo in cui macchine e esseri umani giocano uno contro l’altro: al contrario, in un processo di questo tipo l’elemento che deve essere messo al centro siamo proprio noi, gli esseri umani. 

Di pari passo con la trasformazione digitale, quindi, è importante che si sviluppi anche un altro tipo di trasformazione, quella umana, promuovendo un lavoro costante e trasversale a tutti i livelli delle organizzazioni sulle soft skill da sviluppare, sulla base dell’evoluzione del contesto. 

Paradossalmente, riscoprire il nostro lato più empatico e comunicativo e lavorare sulle persone, soprattutto quando l’organizzazione potrebbe essere vista come fredda e distanziante, è un processo che contribuisce a creare un terreno fertile per lo sviluppo fruttuoso del cambiamento e che porta ad una convivenza sempre migliore tra digitale e fisico.

Il Change Management è soprattutto People Management

La digitalizzazione ha modificato l’asse delle nostre abitudini lavorative su almeno tre aspetti: quello organizzativo, quello delle modalità e quello relazionale, e per tutti e tre gli ambiti ha portato con sé molti vantaggi.

Dal punto di vista organizzativo ha decostruito il principio su cui le aziende erano per la maggior parte basate, ovvero la verticalità. Tutto ciò che rispondeva a necessità gerarchiche, che era delimitato da confini, che avremmo potuto definire territoriali, riguardo ai ruoli e ai compiti è venuto meno per lasciare spazio a dinamiche più orizzontali, che puntano sul networking e sulla collaborazione.

L’idea stessa di collaborazione però ora è molto diversa da quella che si era costruita in precedenza: la modalità di lavoro è infatti cambiata perché le dinamiche tra e all’interno dei team sono state rivoluzionate quando da fisici sono diventati virtuali. Gli psicologi Hambley, O’Neill e Kline, nel loro studio Virtual team leadership: Perspectives from the field., hanno definito i team virtuali come “gruppi interdipendenti di individui che lavorano attraverso il tempo, lo spazio e i confini organizzativi, con collegamenti di comunicazione che dipendono fortemente da tecnologie informatiche avanzate”. L’organizzazione del lavoro con questo modello presenta una serie di benefici che ormai abbiamo imparato a riconoscere: la possibilità di lavorare da ogni parte del mondo; la riduzione dei tempi e costi di viaggio; un bacino maggiore (potremmo dire mondiale) a cui attingere nella ricerca di talenti; una ricchezza più eterogenea nelle competenze, nel background e nei punti di vista. Per non parlare dell’impatto positivo sull’ambiente, con la riduzione delle emissioni grazie al numero inferiore di spostamenti.

Purtroppo però c’è anche una seconda faccia della medaglia, quella che mostra i rischi del mondo del lavoro digitale in cui siamo calati. Secondo uno studio della Birmingham Young University a Provo, Utah, il side effect principale è quello di sentirsi isolati e staccati dall’organizzazione per cui si lavora, e questo può avere come conseguenze sui collaboratori:

  • diminuzione nella creatività
  • indebolimento dei legami relazionali
  • cattiva comunicazione, come l’errata distribuzione delle informazioni o l’errata trasmissione di un messaggio e del suo livello di urgenza
  • cattiva comprensione, causata dall’impossibilità di osservare fisicamente il comportamento dei membri, percepirne le espressioni facciali e i gesti della comunicazione non verbale.

A questo poi, si aggiunge anche un tema di divergenze anagrafiche che contribuisce ad aumentare questi effetti negativi.

Diffondere il digital mindset a tutte le fasce di età

Un aspetto da non sottovalutare, quando si parla di digitalizzazione, è quello anagrafico. Sul rapporto tra sviluppo tecnologico e persone più senior, infatti, i numeri parlano chiaro: se da un lato i dati Eurostat del 2021 dimostrano come nel complesso le competenze digitali in Italia stiamo migliorando, con un incremento del 10% rispetto all’anno precedente, una riduzione del divario rispetto alla media UE e una percentuale di utenti internet superiori all’80% della popolazione nazionale, dall’altro raccontano anche di un importante divario anagrafico nella digital literacy. The American Library Association definisce le “competenze digitali di base” come “la capacità di utilizzare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per trovare, valutare, creare e comunicare informazioni, richiedendo abilità sia cognitive che tecniche” e, nell’esaminare le caratteristiche di chi le possiede e chi no, non si può fare a meno di notare come l’età abbia un’incidenza importante:

  • lavoratori nella fascia 25-34: 61%
  • lavoratori nella fascia 55-64: 37,6%

Questo gap tra generazioni non è da sottovalutare: si può concretizzare in un divario di idee, comportamenti, visioni, norme culturali e modi di affrontare la vita che fanno da base a difficoltà di collaborazione, scontri e pregiudizi.

Come fare, quindi, per non lasciare nessuno indietro e mantenere alto il livello di collaborazione?

Da leader a e-leader: le skill da sviluppare per attuare la trasformazione umana

Per lavorare in un contesto sempre più digitale, abbiamo bisogno di un atteggiamento sempre più umano. A trasformarsi deve essere in primo luogo chi ha un ruolo di riferimento, che da leader deve diventare in e-leader. Ma in che modo?

Il primo passo può essere lavorare su alcune skill specifiche:

  • capacità di delegare: se in passato la leadership era molto concentrata nelle mani di pochi, se non addirittura di uno solo, ora invece diventa diffusa, mirando all’empowerment delle persone. Più deleghe e quindi più responsabilità trasversali si trasformano in un maggiore ingaggio per i dipendenti.
  • visione: imparare a percepire il cambiamento e ad anticiparlo. Se prima la leadership era intesa come una capacità pragmatica, ora diventa orientata all’infondere entusiasmo, dare un senso di direzione e di coerenza.
  • flessibilità: riuscire ad adattarsi alle esigenze, in un contesto in costante evoluzione, dà la possibilità di trovare soluzioni creative e ogni volta diverse in base alle situazioni specifiche.
  • capacità di comunicazione: soprattutto in contesti internazionali e interculturali, in cui è maggiormente importante identificare somiglianze e differenze e valorizzare le specificità dei diversi background.
  • team working: per tenere unito e concentrato sull’obiettivo un gruppo diviso da spazio, tempo e caratteristiche.
  • capacità di imparare: upskilling e reskilling sono le costanti in un contesto che non smette mai di cambiare. Questo fa sì che l’attitudine ad avere una mente aperta e a “imparare a imparare” sia la chiave per gestire il cambiamento a 360°.

La trasformazione umana, quindi, non si attua solo attraverso l’adozione di un digital mindset, ma andando a fondo, in ogni fase del lavoro, dell’aspetto più umano: non è la tecnologia ma la persona quello su cui a tutti i livelli delle organizzazioni bisogna fare leva per realizzare un’evoluzione vincente.