Anche questa volta traggo ispirazione da un film, "Il giorno più buio", fonte di emozioni e di illuminazioni sul tema della leadership, visto di recente. In primo piano Churchill, agli inizi della sua massima sfida. Sullo sfondo Hitler, nel suo momento di massimo splendore, in cui sta per impadronirsi dei capisaldi continentali dell'Europa nord-occidentale.
Entrambi innegabilmente due grandi leader. Entrambi dotati di una grande capacità di comunicare e di connettersi con la pancia e il cuore dei seguaci, rivendicando il ruolo, l’orgoglio e la potenza della propria nazione. A Hitler non difetta la visione (la superiorità della etnia germanica) né una mission forte (affermare la supremazia della Germania su tutte le altre nazioni).
Cosa differenzia Churchill? Lo vediamo per quasi l’intero film dibattersi fra le proprie speranze (illusioni?), prontamente smentite dai fatti, e i richiami al realismo e alla razionalità da parte di due antagonisti nel ristretto gabinetto di guerra, in pieno dissenso con la sua visione, i ministri Chamberlain e Halifax. Il suo incarico come primo ministro, appena nato, è circondato da una diffusa sfiducia sulla sua capacità di lettura della realtà da parte di molti membri del suo partito (lo hanno scelto perché vincolati dal partito di opposizione per formare una grande coalizione nell’emergenza bellica), e del re che lo nomina con riluttanza, anche per la sua immagine intaccata da precedenti fallimenti.
Pecca grave per un leader, già handicappato da pesanti e vistosi limiti: il peso degli anni, le energie declinanti, la percepibile dipendenza dall’alcool. Per tutti i primi giorni del suo incarico si sforza di comunicare al meglio la sua strategia, ma dietro le quinte si contorce fra i dubbi, incapace di trovare una sintesi fra la realtà dei fatti e i suoi valori.
Lo vediamo in preda a scoppi d’ira con la povera dattilografa e borbottare fra se’ nel travaglio dell’indecisione fra alternative che appaiono largamente deficitarie e piene di rischi. I capi dei paesi alleati smentiscono in rapida successione i suoi appelli a resistere, persino l’amico presidente americano Frank Roosevelt ironizza sulla sua richiesta di aiuto, nel corso di una telefonata che mette a dura prova il suo orgoglio.
E quando sembra ormai prossimo a cedere al richiamo al realismo da parte dei suoi due importanti comprimari e accettare un negoziato umiliante col disprezzato nemico, visto in tutta la sua inaffidabilità, con la mediazione tutt’altro che imparziale di un altro disistimato avversario, Mussolini, ecco che alcuni eventi intervengono a rianimare le sue residue energie.
Il primo evento è un incontro in piena notte a tu per tu con la moglie, Clementine, interpretata magistralmente da Kristen Scott Thomas, stretta corrispondente in versione aristocratica delle donne che ho visto tante volte esercitare in pieno il loro potere nell’ambito famigliare. Clemmy lo coglie insonne sull’orlo del crollo, in preda alla cocente amarezza per la ormai improcrastinabile scelta dell’alternativa che più aborre fra le due concepibili di fronte alla vittoria imminente delle armate hitleriane e alla quasi certa perdita dell’intero esercito inglese impegnato sul continente. Salvare il salvabile: accettare il negoziato.
Il lucido messaggio della moglie, forte della sua cognizione profonda del marito e soprattutto della propria solida saggezza femminile, suona così, in sintesi, di fronte alla sua amara titubanza: “I dubbi? Sono la tua forza!”.
Non ci accorgiamo subito della portata di questa affermazione spiazzante. Ma l’effetto lo osserviamo subito: il vecchio leone osa per la prima volta scendere dalla consueta limousine con l’autista solidale che lo reca a Westminster, e immergersi nel ventre della metropolitana, mai frequentata prima. Una volta salito sul vagone si apre al contatto diretto con la gente comune e chiede ai concittadini presenti nella vettura come vivono questo momento tragico. Un contatto profondamente arricchente per il protagonista e commovente per noi, di fronte a un esercizio “umano” del potere, nella sua normale semplicità. Un sogno, per molti di noi: un potente “vicino”, con cui si può dialogare, dire la propria, persino scherzare.
Accendiamo un faro su questo messaggio, apparentemente secondario, e cerchiamo di dissotterrarne il suo senso profondo. Cosa ci mostra? Come la vulnerabilità, una volta accolta, da debolezza si trasforma in una risorsa che consente al leader di fermare la propria dissipazione di energia per forzarsi a una scelta, e aprirsi a prospettive nuove e diverse. La forza sta nell’accettare di essere un essere umano, che di fronte agli ostacoli come tutti gli umani si frammenta in parti in conflitto fra loro e avverte la penosa dispersione di energia che la diatriba interiore comporta. La forza sta nel convivere con questa pena fino a che…? Finché qualcosa di nuovo arriva: l’incontro con altri conforta e rafforza l’energia del leader, non più solo. La leadership ci appare in tutta la sua chiarezza come una danza corale. O almeno questa leadership.
Per contrasto, e per chiarirci meglio questa conclusione, analizziamo ciò che sappiamo del modello messo in atto da Hitler, per i dati storici e mediatici disponibili ai profani.
Qui la forza è concepita come un monolito privo di incrinature, come un esercizio totale del potere di guida su di sé e sugli altri. Che si traduce in un totale annullamento del dubbio, dell’incertezza, e si esprime in una raffigurazione totale di sicurezza. Non c’è spazio per la diversità di visioni, per il dissenso né dentro ne fuori di sé. C’è solo spazio per l’adesione e l’ubbidienza. Tutto il resto è inammissibile debolezza, slealtà, tradimento, cospirazione: quindi va eliminato (per inciso: Churchill sceglie di avere i suoi avversari nel Gabinetto ristretto di guerra!).
Come possono nascere contributi innovativi, in questo contesto? Si può solo sperare in una guida onnisciente, incapace di errori. Invece la storia ci mostra costanti esempi di errori e di cadute rovinose, prima o poi. Anche Hitler, forse inebriato dal suo successo iniziale, diventa cieco e non si rende conto dei contraccolpi che le sue ambizioni smisurate comportano: come può immaginare che tutto il mondo (a parte pochi alleati) assista complice alla sua escalation di aggressioni e di invasioni: la Russia (ahi la lezione di Napoleone disattesa!), l’Africa, e via via tutto il mondo?
In conclusione: la leadership si manifesta come una danza indissolubilmente individuale e collettiva, in cui giocano vari attori, ognuno con il suo portato di talenti, pensieri, energie e in cui le emozioni e le relazioni hanno un ruolo fondamentale. Il leader nei momenti più complessi e difficili ha tutto il diritto di sentirsi debole e diviso fra diverse scelte, spesso di pari peso. Trovare una sintesi è faticoso ma possibile, facendo leva sull’aiuto di altri, se si riesce a liberarsi dalla presunzione, agevolato dal contatto vero con l’altro, rafforzato dalla propria vulnerabilità non occultata. Tutte le capacità necessarie per praticare questa danza possono essere imparate e sviluppate a partire dall’esperienza, attraverso la riflessione, la comprensione, e poi la sperimentazione mirata. Processo che devo agli insegnamenti di David Kolb, oltre a innumerevoli conferme di vita e alla consapevolezza derivante dagli errori.