Lo facciamo tutti, magari inconsapevolmente, a casa, con gli amici e anche in ufficio. Quando ne siamo vittima ci rendiamo conto di quanto possa essere fastidioso, ma nonostante questo sembra che sia davvero una tentazione più forte di noi: è il phubbing. Ma in cosa consiste? Perché è dannoso? E soprattutto, come fare a evitarlo?
Un aspetto che in Performant by SCOA mettiamo sempre in luce con le aziende con cui lavoriamo è che i comportamenti, di qualunque tipo essi siano, sono osservabili. Ce ne sono alcuni, poi, che non sono solo osservabili, ma addirittura evidenti, sotto gli occhi di tutti in qualunque momento della giornata, e tra questi c’è il phubbing. Il termine phubbing è stato coniato nel 2012 dall’Università di Sidney ed è il risultato della crasi tra le parole inglesi phone e snubbing: col tempo si è diffuso sempre di più, tanto che ormai è entrato anche tra i lemmi della Treccani, che lo definisce come “l’azione, il fatto di trascurare il proprio interlocutore fisico per consultare spesso, in modo più o meno compulsivo, il cellulare o un altro dispositivo interattivo”.
Un atteggiamento che, secondo uno studio dell’Università del Kent, proprio perché viene naturale, è ormai considerato come “normativo e non dannoso in generale”, in quanto risponde a tre criteri, che sono quelli di falso consenso, reciprocità e frequenza, che portano gli individui a considerare un atteggiamento ampiamente diffuso come accettato e accettabile su larga scala. In realtà, il messaggio che passa è che qualunque notifica arrivi a uno dei due interlocutori sia più importante rispetto alla persona che ha davanti.
È proprio la discrepanza tra le percezioni delle persone coinvolte che genera, anche in azienda, il problema: se agli occhi di una delle parti non si sta facendo niente di sbagliato, dall’altra si sta mettendo in atto un atteggiamento scortese. Questo può avere degli effetti ampiamente negativi sulla qualità delle relazioni e di conseguenza sulla fiducia, sull’engagement e sulla produttività dei collaboratori.
Quali sono gli effetti (negativi) del phubbing?
Dopo il 2020, con la diffusione dello smartworking e la possibilità di fare riunioni in call, frequentare l’ufficio in tanti contesti e organizzazioni non è più un obbligo. Eppure è chiaro a tutti quale sia il valore aggiunto di una modalità ibrida di lavoro, di trasformare l’ufficio dal posto in cui stare al computer dalle 9 alle 18 a un luogo in cui è possibile tessere relazioni, avere scambi su un livello più umano ed essere coinvolti in ciò che sì fa creando un legame con le persone con cui lo si fa.
In questo contesto, il pericolo del phubbing si fa ancora più insidioso, perché va proprio a minare la qualità dello stare insieme, innescando una spirale da cui è difficile uscire. Infatti chi lo attua (il phubber) rischia di dare avvio a un circolo vizioso in cui chi lo subisce (il phubbee), infastidito e annoiato dall’atteggiamento del phubber, tira fuori il telefono, diventando phubber a sua volta: una catena automatica che genera un diffuso senso di isolamento e di esclusione che, da un lato, va a inficiare tutto ciò per cui l’ufficio ancora esiste, dall’altro, a livello più profondo, crea una cultura organizzativa e comportamentale in cui quotidianamente si ritrovano disattenzione e mancanza di ascolto, che danno poi origine a conseguenze negative sulle relazioni e a fraintendimenti legati a perdite di informazioni, difficoltà nel coordinamento e mancanza di allineamenti sulle attività da svolgere.
Il già citato studio dell’Università del Kent dimostra come il phubbing peggiori in maniera significativa la comunicazione e la relazione tra persone, in quanto si tratta di una forma di esclusione sociale: usare il telefono mentre qualcuno ci sta parlando va infatti a minacciare alcuni bisogni umani relazionali che sono fondamentali, come l’appartenenza, l’autostima, il senso di realizzazione e il controllo e in più peggiora l’umore delle persone.
Un aspetto da non sottovalutare soprattutto nel contesto aziendale, in cui engagement, soddisfazione e autostima sono elementi importantissimi per il benessere dei collaboratori.
Le conseguenze si aggravano ancora di più quando avviene quello che i ricercatori della Hankamer School of Business della Baylor University definiscono come boss phubbing, ovvero l’abitudine di un supervisore di essere distratto dallo smartphone quando parla o è in stretto contatto con i collaboratori: questo può essere un vero ostacolo nella costruzione di una relazione proficua, ma soprattutto può minare lo sviluppo professionale del collaboratore stesso.
La ricerca ha dimostrato che le conseguenze più notevoli sul team del boss phubbing riguardano:
- mancanza di fiducia nel supervisore (76%)
- diminuzione dell’autostima e del benessere mentale (75%)
- inferiore impegno nelle attività lavorative (5%)
I dipendenti che sperimentano il boss phubbing, quindi, hanno livelli inferiori di fiducia nei confronti del loro supervisore e questo comporta anche meno probabilità di sentire che il loro lavoro è prezioso o che sia possibile una crescita professionale. Di conseguenza, i dipendenti che lavorano sotto la supervisione di un phubber tendono ad avere meno fiducia nella propria capacità di svolgere il lavoro.
Non esattamente la situazione che un Manager auspicherebbe per la sua azienda, quindi.
Come contrastare il phubbing sul posto di lavoro
Come abbiamo detto, il phubbing è qualcosa che ormai viene naturale (uno studio di reviews.org dice che le persone controllano il telefono 144 volte al giorno), a cui tendiamo a non fare caso quando lo attuiamo e di conseguenza non notiamo il disagio della persona su cui lo stiamo esercitando. Proprio per questo è utile lavorare sulla costruzione di una cultura organizzativa che ponga l’accento sulla qualità delle relazioni e sul rispetto reciproco.
L’elemento su cui si pone l’accento durante le sessioni di Coaching è la consapevolezza. Rendersi conto di quanto spesso e come si agisce un determinato comportamento è il punto di partenza per arrivare alla domanda che è il cuore dell’atteggiamento stesso: perché lo faccio?
Nel caso del phubbing, lo stimolo potrebbe arrivare da notifiche di social network o messaggi di familiari o amici, oppure dal lavoro stesso: un messaggio nel thread di slack, un’email del capo, un whatsapp del cliente sono “distrazioni improvvise” che allontanano dai colleghi anche durante i momenti di pausa, come il caffè o il pranzo.
Creare una cultura per un uso più sano dello smartphone dal punto di vista sociale passa quindi anche dall’organizzazione dell’azienda e per farlo è opportuno sviluppare alcune competenze:
- time & task management: non tutto ciò che arriva è urgente. Creare un ambiente in cui i lavoratori non siano obbligati a rispondere a qualunque messaggio nel più breve tempo possibile rende più facile sentirsi autorizzati nel continuare a parlare con le persone che si hanno davanti anziché rintanarsi nel telefono o nel computer all’improvviso.
- gestione dei conflitti: spesso è più facile evitare un conflitto che affrontarlo e il telefono è un’ottima scusa per scappare da una situazione che non ci piace. Un messaggio urgente, una telefonata a cui si deve rispondere, sono vie di fuga sempre a portata di mano. Spronare i collaboratori a confrontarsi, a esprimere la propria opinione senza timore può essere utile anche a evitare che l’uso del telefono lasci delle incomprensioni sospese.
- comunicazione interpersonale: per messaggio i fraintendimenti sono più probabili, faccia a faccia ci si capisce meglio. È importante fare in modo che le persone si sentano stimolate a parlare e a relazionarsi con gli altri per essere più coinvolte in ciò che fanno, anche creando aree dell’ufficio e momenti dedicati all’integrazione e alla conoscenza reciproca.
- feedback: un confronto costante tra supervisore e dipendente incita al confronto, all’onestà e aumenta la fiducia reciproca e il senso di appartenenza. Dare al collaboratore la possibilità di parlare liberamente con il proprio superiore è un modo per far capire a quest’ultimo se ci sono degli atteggiamenti che attua che possono essere un ostacolo allo sviluppo professionale del dipendente (come ad esempio l’atteggiamento che ha con il suo smartphone).
Per dare a tutti la possibilità di sviluppare queste skill, è necessario un metodo di lavoro che contrasta con l’idea di dover essere per forza sempre connessi e produttivi. Ad esempio, durante le classi e le sedute di Coaching, i Coach di Performant stabiliscono quello che viene chiamato “patto d’aula”, ovvero si chiede ai Coachee di rispettare delle regole utili a migliorare la concentrazione e la consapevolezza, come ad esempio l’invito a lasciare il proprio cellulare fuori dal campo visivo per essere presenti al 100% su quello che sta accadendo.
Allo stesso modo nelle aziende si possono organizzare delle no-phone areas, come le sale riunioni o l’area caffè, per dedicare quegli spazi solo all’interazione tra persone, oppure delle no-fly hours, fasce orarie in cui non si fissano call, non si mandano email né messaggi (a scanso di vere urgenze) per concentrarsi sul lavoro da svolgere senza interruzioni.
È opportuno quindi attuare un cambiamento di mindset, dedicando del tempo all’educazione alla disconnessione e alla creazione di una cultura improntata a una sana costruzione delle relazioni.