Perché investire sulla Gender Inclusion in azienda?

Poco più di un anno fa, su Sky TG24 andava in onda lo speciale “L’importanza di chiamarsi Carlo”, dedicato al tema delle disuguaglianze di genere nel mondo del lavoro. Un titolo non solo evocativo, ma effettivamente descrittivo dello scenario italiano contemporaneo. Quella che potrebbe infatti sembrare una metafora o una mera rivisitazione di un’opera letteraria, racconta invece proprio la realtà dei fatti: se guardiamo alle prime 100 aziende più capitalizzate di Piazza Affari, 7 è il numero di CEO che si chiamano Carlo, esattamente quante sono le CEO donne. La percentuale di Amministratori delegati di nome Carlo è equivalente a quella delle donne che ricoprono il medesimo ruolo. Questi dati emersi da una ricerca condotta in collaborazione con ValoreD, associazione che promuove l’equilibrio di genere e la diffusione di una cultura inclusiva nelle aziende, confermano quelli statunitensi già raccontati nel 2018 dalla prima pagina del NY Times: a cambiare è solo il nome specifico, che nel caso degli Stati Uniti è John.

Sempre più aziende si dimostrano impegnate nella costruzione di una cultura organizzativa inclusiva, attraverso la specifica istituzione di attività, iniziative, progetti volti a ridurre le disuguaglianze di genere e favorire, in generale, le pari opportunità. Un esempio recentissimo è Lego, che solo pochi giorni fa ha annunciato la scelta di non produrre più confezioni di giochi pensati appositamente “per femmine” e “per maschi”, ma di differenziarle invece “per passione”. Si percepisce dunque l’urgenza di un cambiamento in questa direzione, ma il progresso effettivo è ancora alquanto limitato, sia a livello globale che nel panorama italiano. Quali sono ancora i maggiori ostacoli? Cosa si può fare concretamente per superarli e per lavorare attivamente nell’ottica di dar vita ad una cultura delle pari opportunità?

Parità di genere? Un po’ di dati

Ancora si parla di Gender Equity, non dovrebbero essere problematiche risolte molto tempo fa? Eppure i dati ci dicono l’opposto. Secondo l’International Business Report (Ibr) – Women in business 2020 solo il 29% delle donne nel mondo occupa posizioni di vertice. Il numero di aziende il cui CEO è una donna ammonta al 20% nel mondo, al 23% se guardiamo all’Italia. Sono percentuali in crescita rispetto al passato, ma ancora molto basse, che raccontano uno squilibrio di genere molto significativo.

Il fatto che le difficoltà di fare carriera sono molto maggiori per le donne emerge anche dal cosiddetto gender pay gap, per cui in media gli stipendi degli uomini sono più alti. Molti studi dimostrano poi come l’occupazione femminile sia nettamente più bassa di quella maschile, nonostante le donne siano mediamente più acculturate degli uomini: la situazione è peggiorata con il Covid-19, che ha causato la perdita del lavoro principalmente a donne. Significativo per queste dinamiche è lo squilibrio tra congedo di paternità e di maternità: l’arrivo di un figlio sembra costituire un reale ostacolo alla carriera per le donne, ma non per gli uomini. E infatti la motivazione più diffusa per le dimissioni è il cambio di professione per gli uomini, mentre per le donne la difficoltà di conciliare la cura dei figli con gli impegni lavorativi.

In contrasto con questi dati scoraggianti, l’indagine condotta da Accenture chiarisce proprio il rapporto tra la diffusa sensibilità per questi temi e lo scenario attuale. La ricerca ha coinvolto oltre 30.000 professionisti e oltre 1.700 dirigenti, uomini e donne, distribuiti in 28 paesi tra cui l’Italia.

In particolare, la maggior parte dei dirigenti e dei dipendenti, in Italia e nel mondo, riconosce come fondamentale per il successo della propria attività professionale una cultura aziendale inclusiva. L’aspetto interessante è che a questi risultati si contrappone un ampio divario tra la percezione dei dirigenti e quella dei dipendenti. La quasi totalità dei dirigenti infatti si dichiara convinto dell’assenza di fenomeni di esclusione in essa. Un alto numero di dipendenti però dichiara di sentirsi escluso. Inoltre, nonostante il riconoscimento del suo valore, la maggior parte dei dirigenti colloca l’inclusione in basso nella scala delle priorità, mettendo invece in cima performance finanziaria e innovazione.

Questi dati sono utili per comprendere più a fondo le radici di certe dinamiche, e perché chiariscono quali sono le leve su cui agire per ottenere comportamenti davvero più efficaci, nell’ottica di implementare un cambiamento più profondo e duraturo.

Gender bias: non si può agire su ciò che non si vede

Il divario tra ciò che pensano i dirigenti e ciò che vivono invece i dipendenti suggerisce che conoscere l’importanza di mettere in pratica comportamenti inclusivi non è sufficiente per riuscire a farlo davvero. Le disuguaglianze di genere sono così in moltissimi casi frutto non di una deliberata scelta, né tantomeno di una esplicita ignoranza. Il carattere discriminatorio di certi comportamenti, molto spesso, non è evidente, non è riconoscibile a primo acchito. Sono comportamenti che «si confondono nello scenario, si mimetizzano», racconta l’Executive Business Coach Roberto Degli Esposti, condividendo ciò che osserva spesso durante i progetti dedicati a queste tematiche. E, aspetto ancora più sottile, sono molto spesso inconsci, sfuggono al nostro controllo e prescindono dall’intenzione. Sono i cosiddetti gender biases. Il nostro cervello è esposto ad un numero maggiore di informazioni rispetto a quello che è capace di gestire e per questo ha sviluppato un modo di categorizzare per poter prendere decisioni più velocemente. Gli unconscious bias fanno parte di queste “scorciatoie” e ci spingono rapidamente ad agire. Ci consentono di essere efficienti in molte situazioni, ma possono diventare ostacoli nel momento in cui ci spingono verso pregiudizi infondati. Ne siamo tutti vittime più sovente di quanto pensiamo, indipendentemente dalle nostre convinzioni etiche. Lo conferma Degli Esposti, raccontando l’impatto che vedere determinati comportamenti radicati nella cultura individuale o collettiva dei suoi clienti ha su di lui, come Business Coach: «Faccio anche una scoperta su di me. Mi si aprono gli occhi su cose che forse ho sempre guardato negli altri, ma che senza accorgermene facevano parte anche del mio modo di leggere la realtà. Mi capita di realizzare che certe dinamiche fanno parte anche del mio modo di comportarmi».

In linea con ciò, le neuroscienze mostrano come leggendo una frase che non conferma uno stereotipo, si registri nel nostro cervello una reazione simile alla rilevazione di un errore grammaticale. Questo non dipende dai valori morali, ma da come si è visto il mondo rappresentato finora: si tratta quindi di una dimensione più profonda, radicata in noi, che ci condiziona profondamente senza che ce ne accorgiamo, e che a maggior ragione merita una costante attenzione. «I bias non sono la realtà, ma un misto di emozioni ed esperienze del passato che ci fanno ragionare in un modo specifico. Invece che pensare che rappresentino la verità, possono essere usati per sondare la realtà, cambiando l’affermazione in una domanda», dice la Senior Business Coach Anja Puntari. «Per esempio invece di dire “Le donne fanno fatica a gestire l’equilibrio tra vita privata e lavoro” possiamo chiedere “Le donne fanno fatica a gestire l’equilibrio tra vita privata e lavoro?”»

Alcuni dei bias più potenti sono proprio quelli del linguaggio: la maggiore diffusione del maschile di determinati ruoli professionali, prima tra tutte quello del manager, incentiva l’associazione della professione alla categoria degli uomini e riduce le probabilità che una donna si candidi per quelle posizioni.

La Gender Inclusion per il successo

L’altro aspetto significativo è la volontà di porsi come obiettivi più importanti l’innovazione e il miglioramento delle performance finanziarie, senza considerare che proprio l’inclusione è uno strumento indispensabile per ottenerli. Quello che manca allora è una forte consapevolezza del fatto che non attuare comportamenti inclusivi in generale della diversità, ma anche proprio nello specifico nei confronti delle donne è un errore strategico: non si tratta di qualcosa che è giusto fare, ma è qualcosa che è imprescindibile in un’ottica di business e di successo. «Non si può non fare: è la base del presente, indispensabile per la costruzione di un futuro diverso» dice l’Executive Business Coach Cristina Nava.

L’inclusione di genere è la chiave per portare innovazione, crescita e progresso nelle organizzazioni. I team molto diversificati per genere hanno prestazioni significativamente migliori, assicurano profitti più alti e maggiore innovazione. Diversi studi confermano anche che una maggiore presenza femminile ai vertici assicura sostenibilità e migliori risultati di business: questo dipende in gran parte da uno stile di Leadership che favorisce un migliore clima aziendale, l’abilità dell’organizzazione di stare al passo con i tempi, di essere più innovativa, di avere meno assenze di malattia per cause psicologiche. Dà attenzione alla relazione, spazio alla dimensione emotiva al lavoro, comprende la motivazione e l’ingaggio come elementi chiave nella volontà delle persone di dare il proprio meglio. Può – e anzi deve – essere adottato anche dagli uomini, anche proprio nell’ottica di ottenere l’eliminazione di stereotipi, etichette e bias di genere e non invece una “clusterizzazione al contrario”, che non farebbe altro che perpetuare le disuguaglianze.

Gender Inclusion: walk the talk

Quello che occorre è infatti una trasformazione radicale, che estirpi i meccanismi discriminatori dalle radici, sia al livello dell’individuo, sia più ampiamente sulla cultura collettiva. Parità non significa portare al 50% le assunzioni femminili, che sarebbe un mero livellamento non proficuo, un inclusione puramente superficiale e non invece orientata a valorizzare i talenti. A questo proposito si inserisce anche la questione spigolosa delle cosiddette “quote rosa” spesso disdegnate sia dagli uomini che dalle donne. La questione femminile in azienda non è meramente numerica, si tratta piuttosto di creare le condizioni per cui tutti abbiano le possibilità di esprimere le proprie potenzialità e di dare il pieno contributo.

Il Coaching fa proprio questo: va in profondità, alle radici, lavora sulla cultura individuale e collettiva. I Coach accompagnano le persone in una evoluzione personale e collettiva per scoprire il pieno potenziale che c’è in loro e nell’organizzazione. L’obiettivo del Coaching è, in primo luogo, generare nelle persone la consapevolezza dei bias che vivono quotidianamente, ma di cui non si rendono conto. Questo è il primo passaggio, necessario per trasformare in modo inclusivo il modello manageriale e culturale di un’azienda: far aprire gli occhi su ciò che di disfunzionale non vedono del proprio modello comportamentale. Questo consente poi lo sviluppo di competenze nuove e l’allenamento di comportamenti più appropriati ed efficaci.

In particolare, serve allenare l’ascolto attivo dell’altro, ponendo attenzione a come si sentono le persone, dare spazio alle emozioni e all’espressione di sé. Questo da un lato contribuisce a creare le condizioni per aumentare la consapevolezza di cosa succede davvero in azienda e di cosa provano le persone. Gli individui si sentono davvero inclusi? Lo strumento principe diventa dunque il dialogo, perché come dice proprio Roberto Degli Esposti, solo attraverso di esso «possiamo comprendere cosa, di quello che facciamo, arriva oltre i confini delle nostre intenzioni e come quelle intenzioni diventino il percepito di ciò che siamo agli occhi degli altri». Solo un dialogo aperto permette così di oltrepassare i bias cognitivi, uscire dalla nostra prospettiva e abbracciare il punto di vista dell’altro.

Tutto questo è realizzabile adottando uno stile di leadership inclusivo, lavorando sulla costruzione di una cultura comune: è necessario intervenire per allineare i diversi team verso gli obiettivi di D&I, agendo a livello sia del singolo sia dell’organizzazione come sistema.

«Il Coaching è efficace nel rendere effettiva ed evidente, attraverso comportamenti osservabili l’inclusione, renderla reale e tangibile» dice Cristina Nava. «Ma non solo, l’impatto è sistemico: lavorare su queste tematiche ha una ricaduta positiva sullo stile di leadership in generale, è una leva potente per ottenere un cambiamento più ampio, perché riflettere su questi temi scatena nei Coachee una sensibilità e una genuina intenzione di mettere mano al proprio modello manageriale».

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