Sostenibilità: il valore dell’etica

Per le aziende che vogliono affrontare un percorso di transizione verso la sostenibilità, oltre a proporre un’adeguata formazione ai dipendenti e a stilare un piano di sostenibilità con obiettivi specifici, è importante fermarsi a riflettere su un ulteriore aspetto: l’etica. Come si legano etica, sostenibilità e business? Ce lo spiega Francesco Solinas, Executive Business Coach e Partner di SCOA. 

Cominciamo dalle buone notizie: oggi molte aziende, soprattutto le grandi imprese, investono nella sostenibilità. I dati ISTAT del 2023 dimostrano che nel 2022 il 59,5% delle imprese manifatturiere abbia intrapreso azioni di sostenibilità; leggermente inferiore, ma comunque notevole, la percentuale relativa al settore dei servizi, che scende a un comunque buon 50,4%. Ora, quelle cattive: sebbene siano dati incoraggianti, tutti sappiamo che ancora non bastano per garantire alle generazioni future un mondo migliore.

C’è ancora molto infatti che i contesti organizzativi possono fare, e quelli che hanno già agito o stanno agendo ora hanno anche la possibilità di fare da esempio a quel 40-50% che non ha ancora intrapreso un percorso verso la sostenibilità.

Dare il via al cambiamento, come diciamo sempre, è una questione di comportamenti, ma al di là delle abitudini che dobbiamo trasformare per mettere in pratica i concetti di un’economia sostenibile, credo che ci sia una dimensione profonda che tutti, a qualunque livello organizzativo, siamo chiamati a coltivare con coraggio se vogliamo costruire un mondo lavorativo più sano: la dimensione di cui parlo è l’etica.

Come afferma anche Vito Mancuso nel suo libro Etica per giorni difficili, al contrario dell’io, che riporta tutto a sé, l’etica può essere intesa come un valore più alto: seguire l’etica è la consapevolezza di trovarsi al cospetto di un contesto più grande, più importante e che va al di là del proprio personale interesse. Non serve spostarsi più di tanto per darle ascolto, basta guardarsi dentro, che sia dentro di sé o della propria organizzazione. Perché l’etica è qualcosa con cui siamo naturalmente predisposti quanto meno a fare i conti, che abita in noi, e questo significa che non possiamo prescinderne. Quello che possiamo fare, consapevoli delle conseguenze, è fare i conti con la nostra libertà e (soprattutto) responsabilità nello scegliere se rispondere o meno alle domande che l’etica ci pone. Se decidiamo di non farlo, sapremo che qualunque nostra azione sarà riportata al nostro proprio personale interesse e piacere, se al contrario scegliamo di obbedire al senso etico, vuol dire che siamo in grado di mettere da parte l’io, di guardare anche all’altro, che sia persona, ambiente o procedure. È questo cambio di prospettiva che ci permette di agire in azienda in modo sostenibile.

Non è un passaggio facile, soprattutto se consideriamo il concetto di crescita lineare su cui moltissime aziende di oggi basano il proprio modello economico. Legare la sostenibilità all’etica mette in crisi alcune, forse molte, azioni aziendali che rispondono più alla volontà di curare la propria immagine sul mercato o i propri profitti: queste dinamiche, infatti, necessitano di essere sostituite da iniziative volte all’esigenza di costruire il bene, nell’oggi e per il futuro. Il cambiamento radicale sul tema della sostenibilità nasce prima di tutto dalla coscienza di ognuno, e della volontà di seguirla al di là delle opportunità, delle necessità o degli interessi. È anche qui, come dicevamo prima, un cambiamento di sguardo, che passa dall’essere ombelicale a omnicomprensivo.

La domanda che viene da porsi è però lecita: perché dovremmo praticare l’etica se economicamente non conviene? Perché dovremmo costruire il bene se non risponde ad un vantaggio personale?

In termini alti, una delle possibili risposte ci viene da Immanuel Kant, che ne la Critica della ragion pura sostiene: “Agisci in modo da trattare l’umanità sia nella tua persona sia in quella di un altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Quello che Kant ci insegna, quindi, è che non si tratta semplicemente di fare, ma si tratta di essere. 

Passando dalla filosofia al business, potremmo perciò dire che vale la pena investire sull’etica perché lo stare bene è prioritario (e anche propedeutico) al fare bene. Non si può lavorare bene se non si vive bene. Non si può far crescere l’organizzazione se non c’è spazio per far crescere personalmente i collaboratori. Non si può chiedere ai dipendenti di essere ingaggiati se non li si fa sentire coinvolti. Purtroppo oggi parole come etica, o il termine stesso sostenibilità nel mondo del business sono ancora fragili, utilizzati dai più come un cerotto che si mette al sistema economico solo dopo che ha generato dei danni ormai impossibili da nascondere. 

I risultati di questo modello non etico su cui abbiamo costruito le organizzazioni stanno finalmente venendo a galla con tutta la loro potenza: nelle aziende sono innumerevoli i casi di stress cronico, infelicità generale, depressione, burnout. Il malessere mentale che si è diffuso è figlio dell’abitudine al fare, dell’ottenimento a tutti i costi del risultato perché è un modus operandi che mette in secondo piano ciò che invece dovrebbe essere centrale: la consapevolezza, la responsabilità di mettere in campo comportamenti orientati all’armonia, alla socialità, al benessere per tutti. 

Quando le organizzazioni decidono di perseguire la strada della sostenibilità, di mettersi in prima linea per costruire un futuro migliore, prima ancora di darsi regole e norme hanno bisogno di sentire il richiamo dell’etica: è da lì che si comincia a mettere da parte l’interesse e si punta sull’inter-essere. Nel momento in cui si comprende a pieno l’importanza dell’interiorità, dell’aspetto emotivo, dell’ascolto e delle connessioni che si creano nel contesto lavorativo, allora e solo allora le organizzazioni saranno in grado di decifrare gli atti concreti che indirizzano ad una sostenibilità effettiva, prima di tutto umana. 

E la crescita economica che fine fa? Semplice: continua a crescere. Una ricerca della Saïd Business School dell’Università di Oxford ha infatti dimostrato una correlazione tra felicità e produttività, sostenendo che un’organizzazione felice aumenta il suo fatturato fino al 12% rispetto a una che non lo è. L’antitesi tra sostenibilità e guadagno economico viene così a sgretolarsi, dando alle aziende una motivazione ulteriore per prendersi cura dei propri dipendenti.

C’è un proverbio buddhista che dice: “Semina un atto e raccogli un’abitudine, semina un’abitudine e raccogli un carattere, semina un carattere e raccogli un destino”. Manager e C-level hanno quindi l’opportunità di cambiare, atto dopo atto, pensiero etico dopo pensiero etico, il destino della propria organizzazione e di avere davvero quell’impatto sul presente e sul futuro a cui le aziende mirano, migliorando sia la vita delle persone che l’economia della propria organizzazione.